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NICOLA GRATTERI MAGISTRATO
«I mafiosi controllano le carceri, arricchendosi anche dietro le sbarre e usando come manovalanza i detenuti comuni». Così Nicola Gratteri, procuratore di Napoli, in diverse interviste ha riassunto la sua visione sulla gestione dei cellulari e della droga negli istituti penitenziari. Affermazioni che fotografano un pericolo reale ma che, prese così, travalicano ciò che i fatti documentati e le indagini giudiziarie permettono di dimostrare in modo uniforme sul territorio.
La realtà degli ultimi cinque anni mostra uno scenario a macchie, dove esistono roccaforti di potere e filiere organizzate, ma nella stragrande maggioranza dei casi il traffico di cellulari e droga riguarda esclusivamente detenuti comuni, con la complicità dei familiari e di alcuni agenti infedeli.
Dal 2020 a oggi i sequestri di cellulari in carcere crescono. Fonti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria indicano 1.084 telefoni rinvenuti nel 2022, 1.595 nel 2023, 2.252 nel 2024. Una curva in salita, segno di un mercato vivo, spinto anche dai droni e dall’esigenza di comunicare con i propri cari, visto che persino il ministro della Giustizia ha finalmente messo mano alla necessità di aumentare le possibilità per i reclusi di telefonare ai familiari.
Il mercato nero è sempre gestito dai mafiosi?
Nel novembre scorso una vasta operazione della Squadra Mobile di Napoli ha portato all'arresto di 12 persone – 10 in carcere e 2 agli arresti domiciliari – ritenute appartenenti al clan Vanella Grassi, che avevano messo in piedi un sistema per introdurre, attraverso droni altamente tecnologici, droga e cellulari all'interno del carcere di Secondigliano.
Nelle operazioni napoletane affiora un dato chiaro: gli ordini arrivavano dall’Alta Sicurezza; all’esterno famiglie e sodali organizzavano spedizioni e pagamenti, all’interno si distribuiva la merce e si gestivano i noleggi dei telefoni. Gli input partivano dalle sezioni AS, la rete esterna confezionava i drop, i detenuti non AS si muovevano come terminali. È esattamente la filiera che Gratteri descrive.
I droni sono la punta dell’iceberg. Altri canali restano “classici”: corruzione di singoli agenti, lanci dal perimetro, inserimenti in pacchi e generi alimentari. Gli atti pubblici ne danno conto. Ci sono numerosi casi come a Rebibbia dove forze dell’ordine e un medico avrebbero trafficato cellulari e altri beni, oppure episodi come quello di qualche giorno fa a Catania dove dei ragazzini avrebbero usato dei droni per farsi qualche soldo inviando cellulari. La lista è lunga. Qui i detenuti dell’Alta Sicurezza non c’entrano nulla, non sono coinvolti i mafiosi. Dire che i detenuti in AS controllano in generale gli istituti in cui si trovano non trova riscontri uniformi.
Da escludere poi i boss mafiosi, visto che sono tutti reclusi al 41 bis: qui il margine d’azione è ridotto quasi a zero per definizione. Eventuali rinvenimenti di micro-dispositivi sono eccezioni oggetto di indagini mirate. La corruzione, nella maggior parte dei casi, resta individuale. Le inchieste su episodi di corruzione interna (agenti che introducono pacchi, medici indagati, complici esterni come i familiari dei reclusi) mostrano che esistono altre filiere — basate su opportunità e denaro — che operano indipendentemente da un ipotetico comando proveniente dai reclusi in Alta Sorveglianza. I casi di Rebibbia e di altri istituti dimostrano reti miste: familiari, visitatori, personale infedele.
L’enunciato di Gratteri - espresso in forma apodittica - ha il difetto di travalicare la distinzione tra casi documentati, come l’inchiesta giudiziaria sul carcere di Secondigliano, e tutti gli altri. Lo sguardo giusto non è il manicheismo: non si tratta di negare che in alcuni casi, dietro il mercato nero, possano esistere regie mafiose né di minimizzare i rischi. Si tratta di descrivere la realtà penitenziaria per come è. I fatti stessi di cronaca giudiziaria ridimensionano l’idea di un controllo esclusivo e uniforme da parte dei boss. Più corretto è dire che in alcuni rari contesti i boss riescono a esercitare un potere reale, mentre in altri il fenomeno segue logiche diverse.
Non esiste l’emergenza mafiosa nelle carceri
Secondo Gratteri, la vera emergenza sarebbe proprio il dominio dei mafiosi sul carcere. Un’analisi che, se calata nella Storia, risulta sproporzionata. Negli anni ’80 Raffaele Cutolo riuscì a trasformare la prigione nel quartier generale della Nuova Camorra Organizzata, arruolando migliaia di affiliati e impartendo ordini che avevano ricadute persino sul piano politico e militare. Oggi siamo lontani anni luce da quel modello. Il sistema penitenziario ha fatto passi avanti proprio grazie a un approccio più attento ai diritti e all’umanizzazione della pena. Ogni irrigidimento punitivo, ogni stretta sui benefici, non riduce il potere mafioso, ma rischia di rafforzarlo: meno spazi di socialità, meno percorsi di reinserimento, più terreno fertile per le regole parallele.
Le cronache penitenziarie degli ultimi anni mostrano un dato costante: i mafiosi non partecipano alle rivolte. Anzi, spesso le ostacolano. La ragione è semplice. Il detenuto mafioso sa che la propria condizione detentiva sarà lunga, e che qualsiasi disordine produce conseguenze pesanti: trasferimenti, inasprimenti delle misure, nuove leggi che rendono più difficile ottenere benefici. Per questo i boss preferiscono un’apparente tranquillità, fatta di ordine e disciplina, piuttosto che l’esposizione a un conflitto aperto con l’istituzione. In altre parole, il detenuto mafioso “accetta” il carcere. Non per rispetto verso lo Stato, che lo avversa, ma per sé stesso.
Suicidi in cella e boss: un collegamento senza basi
Ancora più controverso è il legame che il procuratore Gratteri ha tracciato tra i suicidi in cella e la presunta subordinazione dei detenuti comuni ai boss. Non esistono dati a sostegno di questa affermazione. Nessuna indagine giudiziaria segnala suicidi ordinati o indotti dalle organizzazioni criminali. Al contrario, le cause più ricorrenti sono altre: isolamento affettivo, condizioni di sovraffollamento, problemi psichiatrici non trattati.
In alcuni casi documentati, i suicidi sono stati la tragica conseguenza di violenze e stupri subiti da detenuti comuni, non certo di pressioni da parte dei boss. Attribuire queste morti a una regia mafiosa significa oscurare le vere responsabilità: quelle dello Stato che non garantisce adeguato sostegno psicologico, che lascia crescere il numero di detenuti fragili abbandonati a sé stessi, che non trova vie alternative per chi ha solo un anno di carcere da scontare, che nega a lungo il diritto all’affettività.
Se c’è un elemento che favorisce la diffusione della cultura mafiosa in carcere, quello è il sovraffollamento. Celle stipate, mancanza di attività trattamentali, assenza di percorsi di reinserimento creano terreno fertile. Per ridurre davvero il rischio di nuove affiliazioni servirebbe dimezzare la popolazione carceraria, investire in misure alternative, restituire diritti e dignità ai detenuti. È proprio il rispetto dei diritti umani il vero antidoto alla mafia, non l’inasprimento cieco delle condizioni detentive.
Parlare di un “controllo mafioso” sulle carceri equivale a semplificare un fenomeno complesso e a distogliere l’attenzione dai nodi reali: traffici alimentati da falle strutturali, suicidi legati all’abbandono istituzionale, sovraffollamento che crea terreno fertile per nuove subculture criminali. Negli anni ’80 i boss governavano davvero dal carcere. Oggi no. E se si vuole evitare che il passato torni, la strada non è restringere i diritti ma garantirli, perché solo uno Stato che non rinuncia alla sua Costituzione è in grado di spegnere il potere mafioso dietro le sbarre.