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Giuseppe Di Federico
Giurista, professore universitario, che molto ha dato non solo nel suo campo, quello del diritto e della legge. Un aneddoto dice di Giuseppe Di Federico più di tante parole: il rapporto con Giovanni Falcone. Un rapporto «di amicizia molto intenso, soprattutto dopo il suo arrivo al ministero di Giustizia nel marzo 1991». Il ministro in carica è Claudio Martelli: «Volle che fossi io a consultare preventivamente Falcone. Prima di darmi la sua disponibilità, Falcone mi chiese se ritenevo che Martelli avrebbe assecondato le iniziative riformatrici in materia di coordinamento delle attività del pubblico ministero, che chiamava “variabile impazzita del sistema”. Gli dissi di sì.
Tornai quindi da Martelli per dargli la disponibilità di Falcone. Ne fu molto contento, gli telefonò subito. Il giorno dopo Falcone venne a Roma, si mise immediatamente a lavoro. Ciò che mi piaceva di lui era che non amava discorsi teorici, andava dritto all’obiettivo».
La sera prima della strage a Capaci, Di Federico e Falcone si incontrano al ministero di Giustizia: «Mi salutò gioiosamente, risposi a mezza bocca: avevamo avuto un litigio per una sciocchezza. Il giorno dopo venne ammazzato. Provai un gran senso di colpa, perché non ci eravamo lasciati in allegria. La sua morte pose fine alle tante iniziative che avevamo avviato insieme».
Di Federico non era solo il giurista, autore di decine di pubblicazioni fondamentali sul funzionamento concreto delle istituzioni giudiziarie. Per anni responsabile del settore giustizia dell’Agenzia di Ricerca e Legislazione ( AREL), collabora sui temi della giustizia con il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, consulente per le riforme giudiziarie di numerosi paesi europei, latino- americani, del Sud- Est asiatico, e per varie Organizzazioni internazionali ( COLPI, UNDP, UNODC, OSCE, Open Society, World Bank, ecc).
Nel 1991 collabora con il ministro della Giustizia Martelli, per “le tecnologie di supporto del processo penale con riferimento alle riforme dell'ordinamento e dell'organizzazione giudiziaria”. Dal 2002 a 2006 membro del Consiglio Superiore della Magistratura.
Un secondo aneddoto che dà la cifra del personaggio emerge da una lunga intervista curata per Radio Radicale: «Il mio rapporto con Pannella inizia nel 1986, nel corso di una Conferenza per la giustizia organizzata dal Ministero della giustizia. Nel mio intervento parlai dell’anomalo assetto del Pubblico Ministero, il pericolo che rappresentava per la protezione dei diritti civili nell’ambito processuale, di come l’inapplicabile principio dell’obbligatorietà dell’azione penale trasformi qualsiasi iniziativa del PM in atto dovuto sollevandolo da qualsiasi responsabilità anche quando le sue iniziative creano danni irreparabili. Poi Pannella condusse un attacco molto duro al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale citando anche quanto da me detto. Da allora l’obbligatorietà dell’azione penale e le disfunzioni che generava divenne per lui un tema ricorrente. Da semplice simpatizzante radicale divenni una specie di esperto in materia di ordinamento giudiziario per il Partito Radicale e, cosa che soprattutto mi piace ricordare, un amico personale di Marco».
I due, entrambi di origine abruzzese, quando si incontravano si salutavano ad alta voce: “u che s’iccis”, che tu sia ucciso: ruvido e affettuoso saluto usato tra amici in Abruzzo.
Di Federico, il rigoroso giurista che ammonisce: l’obbligatorietà dell’azione penale sottrae al controllo democratico le scelte di politica criminale: «L’impossibilità materiale di perseguire tutti i reati lascia di fatto alla discrezionalità di un corpo burocratico reclutato per concorso, e quindi senza una diretta legittimazione democratica, la definizione di quali reati perseguire prioritariamente e con efficacia.
In altre parole, il potere di definire di fatto gran parte delle politiche pubbliche nel settore criminale. Ciò non avviene in nessun paese a consolidata tradizione democratica. Di questo era ben cosciente anche Giovanni Falcone che dopo aver ricordato ed esemplificato la “disorganicità degli interventi repressivi da parte dei diversi organismi del pubblico ministero si domanda come sia possibile che “in un regime liberal democratico, quale è indubbiamente quello del nostro paese, non vi sia ancora una politica giudiziaria, e tutto sia riservato alle decisioni, assolutamente irresponsabili, dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti... mi sembra giunto, quindi, il momento di razionalizzare e coordinare l’attività del pubblico ministero finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell’obbligatorietà dell’azione penale», e aggiunge che in mancanza di queste innovazioni (a tutt’oggi non ancora avvenute) «non sarà possibile disporre nel nostro Paese di un’amministrazione della giustizia realmente efficace e democratica».
Giudizio chiaro anche per quel che riguarda una questione che in questi giorni solleva una quantità di polemiche, la divisione della carriera del pm da quella del giudice: «Per quanto sia pienamente favorevole a tale divisione, ritengo che l’efficacia di questa riforma non possa essere ottenuta senza la responsabilizzazione delle attività del PM nell’ambito del processo democratico e di una struttura organizzativa unitaria e gerarchica del PM... Per riflettere sul rilievo istituzionale ed operativo che assumono da un canto la divisione delle carriere e dall’altro l’assetto del PM in un sistema politico democratico, è importante ricordare che in nessun paese esiste un PM che non sia inquadrato al contempo in una struttura gerarchica unitaria con al vertice un responsabile che risponda politicamente del suo operato».
Da queste poche battute si capisce il tanto che Di Federico ci ha dato; ma anche come tanti avranno tirato un sospiro di sollievo: finalmente il rompiscatole del diritto è andato “altrove”, la sua voce non è più la nostra cattiva coscienza.