Si diceva, e ancora oggi si dice: «Matto da legare». Prima di Franco Basaglia e della sua rivoluzione, quell’espressione non era affatto un iperbole, al contrario: nei vecchi manicomi venivi legato davvero. Legato al tuo letto, a una sbarra di metallo, a un termosifone, con delle semplici catene d’acciaio oppure avvolto dalle cinghie di cuoio della camicia di forza, l’importante era che non ti potessi muovere. Dovevi stare fermo, immobile nella contenzione, come un giocattolo rotto che nessuno può più aggiustare, buono solo per la demolizione. Nel frattempo ti avevano annientato, con la violenza degli elettroshock, con la brutalità delle lobotomie, ti avevano inoculato il virus della malaria o una siringa di insulina per calmarti, imbottito di cloroformio e di psicofarmaci e poi buttato via, lungo i corridoi squallidi e screziati dal neon degli istituti di cura, a fissare il vuoto e farfugliare lamenti, a dimenticare te stesso, come una creatura mostruosa, da nascondere al resto della società, allo sguardo dei “sani”. La totale mancanza di specchi all’interno dei quasi cento ospedali psichiatrici della penisola non rispondeva solo a rigidi protocolli di sicurezza ma era anche la crudele metafora di un sistema che cancella l’identità personale che ti spossessa rendendoti poco più di un oggetto animato.

Quando Basaglia nel 1961 accetta di dirigere l’ospedale psichiatrico di Gorizia si trova di fronte un film dell’orrore: in quel labirinto di torture e supplizi i malati sono trattati come subumani, degli zombie senza volontà, delle cavie, quanto di più simile ai campi di concentramento nazisti, nello spirito e nei metodi. Quello stesso anno era uscito un libro fondamentale: Asylums del sociologo canadese Erving Goffman, una potente esplorazione sulle conseguenze dell’isolamento e della solitudine sociale che influenzò in profondità il pensiero di Basaglia, il quale scriverà la prefazione per l’edizione italiana. E sempre in quello straordinario 1961 Michel Foucault pubblica Storia della follia nell’età classica, illuminando i dispositivi di esclusione e criminalizzazione di ogni forma di “devianza” dalla norma da parte del potere, dal tardo Medioevo ai prodromi della rivoluzione industriale con la nascita dei moderni manicomi e dell’ “assoggettamento psichiatrico”. Un’altra lettura fondamentale per inquadrare la logica politica che governa l’allontanamento dei reietti e il suo intreccio con le raffinate tecniche di controllo delle società contemporanee, l’uso clinico dell’emarginazione.

In Italia i manicomi erano stati istituiti con la legge 36 del 1904 varata dal governo Giolitti, un testo raggelante che pone sotto custodia «le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo». Chi veniva rinchiuso spesso non soffriva di alcuna malattia mentale, di nessun disturbo nervoso, così gli ospedali psichiatrici erano pieni di omosessuali, di prostitute, di donne adultere, “ninfomani”, “indemoniate” o semplicemente “umorali 2 e “malinconiche”, una panoplia di outsider e diversi, quasi tutti appartenenti alle classi sociali più indigenti e indifese. Durante il fascismo aumentano in modo esponenziale i ricoveri coatti e i manicomi svolgono il ruolo di comodi dimenticatoi dove far marcire gli oppositori politici: con il codice Rocco, tutti gli internati vengono iscritti in automatico nei casellari giudiziari. Di fatto le strutture mediche svolgono funzione di pubblica sicurezza e nessuna aveva come obiettivo il miglioramento della salute dei pazienti.

A differenza di quasi tutti i suoi colleghi, Basaglia possedeva una brillante formazione umanistica, l’essere umano era il fulcro dei suoi interessi intellettuali, in tal senso aveva approfondito la fenomenologia di Edmund Husserl e la sua variante francese, divorando gli scritti di Maurice Merleau Ponty, poi l’esistenzialismo di Karl Jaspers e Jean Paul Sartre, correnti che rimettevano al centro della propria riflessione il corpo umano, spogliato dalle sue proprietà meccaniche, dal suo funzionamento biologico, e restituito alla dimensione di “persona”, un corpo cosciente, espressione non separata del vissuto e della soggettività di ogni individuo. Nella clinica delle malattie nervose dell’università di Padova, un ambiente intriso di positivismo scientista e lombrosiano lo chiamavano «il filosofo», ma a mo’ di scherno, per irriderlo, non certo per fargli un complimento.

Le sue idee libertarie e anticonformiste erano quotidianamente osteggiate dall’antiquata comunità accademica, fedele alla tesi organicistica che vede la malattia mentale come la conseguenza di tare biologiche congenite. Dopo tre anni di insegnamento, di litigi e frustrazioni, Basaglia decide di troncare di netto con il mondo universitario per dedicarsi integralmente alla cura dei malati.

A Gorizia, una struttura lugubre che gli ricorda le carceri del ventennio, il suo primo gesto da direttore è, tra lo stupore del personale, l’abolizione della contenzione; nessun paziente deve più essere legato, le porte delle stanze vengano lasciate aperte, via le reti, le recinzioni, ogni forma di ostacolo materiale.

Eppoi un comodino per tutti, da mettere al fianco dei letti con una piccola luce per poter leggere libri o giornali, un armadietto dove riporre gli oggetti personali, uno specchio dove ritrovare la percezione visiva di sé, e pazienza se qualcuno si farà male, sono in un ospedale e saranno in grado di curarlo. Nella riconquista dell’identità spogliata e offesa dalle istituzioni sanitarie anche il cibo rappresenta un passaggio cruciale: i pasti non saranno più uguali per tutti, i pazienti possono scegliere cosa mangiare tra una lista di pietanze. Progressivamente gli spazi vitali aumentano, ci sono i laboratori di pittura, i corsi teatrali, i lavori socialmente utili, gli incontri con gli assistenti sociali, la formazione continua degli operatori, da punitiva la terapia si trasforma in riabilitativa.

Gli infermieri inizialmente sono interdetti da quelle novità, ma in poco tempo dimenticano le vecchie abitudini, approfittano anche loro di quel clima effervescente di libertà, collaborando attivamente con Basaglia nel rendere l’ospedale un luogo umano, suggerendo soluzioni ai problemi, diventando protagonisti, gli stessi malati ora sembrano meno malati e lontani, con qualcuno di loro si può persino chiacchierare, può nascere addirittura un rapporto, uno scambio, un affetto.

Come tutte le rivoluzioni, anche quella di Franco Basaglia è stata un’impresa collettiva, una marcia verso la consapevolezza di tutti soggetti coinvolti nel cambiamento, medici, personale sanitario, i pazienti e le loro famiglie e infine la società esterna.

Un tentativo, riuscito, di ricollocare la “follia” nel cerchio della normalità. Con in mente un orizzonte ambizioso; far chiudere i manicomi in tutto il territorio italiano: «È un fatto urgentemente necessario, se non semplicemente ovvio» esclama nel 1964 a Londra, invitato al primo congresso mondiale di psichiatria sociale. Basaglia non è stato il primo a evocare questa prospettiva, sulla bocca di filosofi, sociologi e studiosi di psicologia da decenni, ma è stato il primo ad attuarla nella pratica, il primo psichiatra ad applicare quei principi e ad abbattere concretamente i muri dell’esclusione. La sua battaglia ostinata e contraria, ha varcato le mura degli ospedali e della comunità medica, è tata un luminoso esempio e uno sprone per la politica e ha segnato la modernizzazione della nostra società, come il divorzio e l’aborto.

La legge 180 del 1978 che porta proprio il nome di Basaglia ; essa impone la chiusura definitiva dei manicomi, che verranno sostituiti dagli istituti pubblici di igiene mentale. Si compie così la rottura con la vecchia psichiatria cautelare ridefinendo alla radice i concetti di patologia mentale e intervento psichiatrico; nessuna terapia deve più violare i diritti della persona ma mettere al centro la cura, il recupero e il reinserimento sociale dei pazienti, Si tratta di una delle norme più importanti dell’intera storia repubblicana, unica nel suo genere, che fa dell’Italia il primo e tutt’oggi il solo paese al mondo ad aver abolito per sempre la barbarie degli ospedali psichiatrici.