Pubblichiamo un estratto del volume “Lettera a un procuratore della Repubblica”, pubblicato dal presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick nel 1993 per Il Sole-24Ore Libri, all’interno della collana “Mondo economico”.  Signor procuratore della Repubblica, è da tempo che pensavo di scriverLe questa lettera: da quando ho cominciato a seguire le iniziative Sue e dei Suoi colleghi di quasi tutta Italia, nelle vicende di Tangentopoli. (...)Mi decido soltanto ora a scriverLe questa lettera perché mi accorgo che, in realtà, essa è il frutto delle riflessioni che negli ultimi tempi - prima e durante il divampare dell’incendio di Mani pulite — ho raccolto su “Il Sole 24 Ore”. Credo che, in questo benedetto paese, ciascuno non sia mai del tutto soddisfatto del proprio mestiere e cerchi, da dilettante, di farne un altro: io non smentisco la regola e - occupandomi prevalentemente, come professore e come avvocato, di rapporti fra il diritto penale e l’economia - ambisco in fondo a fare il giornalista, o meglio il pubblicista di questi argomenti.Le iniziative Sue e dei Suoi colleghi, in tema di Mani pulite, hanno avuto - a tacere d’altro - grandissimi meriti: quello di tradurre in termini concreti e inderogabili quelle istanze di trasparenza, di legalità e di efficienza che noi teorici ci limitavamo a inseguire astrattamente; quello di avvertire e dimostrare che l’iceberg di Tangentopoli è proprio il frutto di un sistema in cui trasparenza, legalità ed efficienza erano del tutto assenti, nonostante le belle parole e le dichiarazioni di intenti; quello di segnalare la necessità di voltare pagina definitivamente, e subito. (...). Tutto ciò non può non meritare un plauso, ma ha un prezzo che credo sia giusto sottolineare. Ed è per questo che, nelle mie ultime riflessioni giornalistiche, ho cominciato a pormi qualche domanda (mi consenta) sulla tenuta di alcuni principi costituzionali nel metodo di Mani pulite in generale, e ciò senza voler o poter entrare in episodi specifici: dal principio di eguaglianza a quello della riserva di legge; a quello del diritto di difesa; a quello dei limiti della custodia cautelare; a quello della ripartizione di competenza fra i vari giudici e fra i vari pubblici ministeri; a quello del ruolo di entrambi nel sistema costituzionale, rispetto a certe ben note istanze di supplenza che nascono dalla latitanza di altri poteri.Non mi fraintenda. Non sto accusando Lei e i Suoi colleghi di calpestare deliberatamente i principi costituzionali (soprattutto quelli in materia di libertà personale e di diritto al silenzio, come espressione del diritto di difesa, sui quali più si discute in questi tempi). Mi chiedo soltanto se - nella comparazione necessaria fra interessi e princìpi generali, tutti egualmente importanti e significativi per la sopravvivenza del nostro sistema giuridico, e prima ancora istituzionale - si sia tenuto adeguatamente ed egualmente conto di tutti 1 princìpi, anche quando essi potevano apparire (o forse in qualche caso essere) in contrasto fra loro. Non mi risponda (La prego) che il Codice consente ciò che si sta facendo: questo Codice — soprattutto dopo i suoi aggiustamenti, nettamente in contrasto con la sua linea ispiratrice iniziale — consente di fare tutto e il contrario di tutto. Basterebbe pensare al fatto che, in pratica, i processi di Tangentopoli si esauriscono nella fase delle indagini preliminari, in termini cioè esattamente opposti a quanto il codice avrebbe voluto in teoria.Non mi risponda che i provvedimenti in tema di cattura sono stati presi non da Voi, ma dai giudici per le indagini preliminari; che quei provvedimenti sono stati confermati prima dai tribunali della libertà e poi, quasi sempre, anche dalla Cassazione. Potrei replicarLe che la cosa è spiegabile in vari modi, tutti plausibili e tutti da verificare: o perché Voi avevate effettivamente sempre ragione; o perché i giudici del riesame non erano e non sono effettivamente “terzi”, nei Vostri confronti; o, più semplicemente, perché il tempo e lo spazio per il loro riesame è molto più limitato di quanto possa sembrare in teoria; o, ancor più semplicemente, perché ricorrere a essi - in queste condizioni - rappresenta sempre un terno al lotto e rischia di appesantire (attraverso un rigetto) una posizione di custodia e di sofferenza dell’indagato, che può essere risolta più agevolmente con un “negoziato” fra il difensore e il pubblico ministero. (...). Sono convinto che Lei saprà certamente tenere conto di quei dubbi, anche se forse non potrà o non vorrà darmene atto; e - con gratitudine, con fiducia, ma anche con qualche apprensione — Le auguro buon lavoro nell’interesse di tutti. Suo, Giovanni Maria Flick Roma, 5 luglio 1993 Caro Gianmaria, apprezzo molto lo scrupolo e la discrezione che tì hanno indotto al “Lei” e a chiamarmi “Signor procuratore”. Non ti ricambio di egual trattamento giacché la tua cautela, se adottata dalla mia penna, parrebbe ipocrisia a chiunque ci abbia visti insieme, in montagna, arrabattarci sulle piste da sci o recuperare energie e buon umore da una grolla bollente.Ma apprezzo anche altro, e ben altro, nella tua lettera e negli articoli che ti accingi a ripubblicare in raccolta. Mi conosci forse abbastanza per cogliere la problematicità che non rallenta, e tuttavia accompagna ogni mio intervento sul mondo esterno; la diffidenza che suscitano in me le certezze preconfezionate e unilaterali, quantunque nobilissime, ma il fervore con cui, una volta reciso il nodo del dubbio, difendo la scelta e mi adopero per condurla a effetto: l’impegno un po’ masochista - per il che mi riconosco nell’epistemologia di Popper spiegata al popolo - quando metto alla prova la tenuta delle mie stesse convinzioni studiandomi di falsificarle piuttosto che verificarle. (...). È vero che il rapporto tra indagini preliminari e giudizio, nei procedimenti milanesi per i fatti di corruzione, si è sbilanciato a favore delle prime; ed è vero che la macchina giudiziaria milanese, nonostante che oltre duecento posizioni siano state spedite dal pubblico ministero ai giudici, per più ragioni, tra cui insufficienze croniche e conosciute da sempre, stenta a produrre sentenze. Questo è obiettivamente deplorevole, ora come sempre; ma, dal momento che nel novanta per cento e più dei casi ci troviamo di fronte a confessioni incondizionate, riscontrate e note, ferma l’imprescindibilità del giudizio sul piano delle responsabilità individuali, non è un po’ farisaico fingere che per prendere politicamente atto della sconvolgente realtà emersa si debbano attendere le sentenze? (...).Vengo alla libertà personale. Il parametro normativo, la cui applicazione ha dato e dà luogo alle più aspre e velenose proteste da parte di coloro che chiami gli avversari (e che, contrariamente a quanto dici, sono nettissima minoranza rispetto ai laudatores), è quello che contempla il caso in cui, per specifiche modalità e circostanze del fatto, e per la personalità dell’imputato, vi sia il concreto pericolo che questi commetta delitti della stessa specie di quello per cui si procede. Tu stesso hai parlato di un sistema di prelievo improprio di ricchezza a beneficio di organizzazioni politiche o a beneficio personale, e il sistema era radicato fortemente e da lungo tempo nella realtà del paese; né le occasionali repressioni e gli isolati scandali venuti alla luce nel passato avevano mai inciso nella dimensione del fenomeno, semmai aggravatasi con gli anni. Che cosa c’è di irragionevole nel ritenere che il pubblico amministratore o l’imprenditore che quel sistema hanno praticato e alimentato continueranno, direttamente o per interposta persona, quand’anche dismettano la loro veste (che non è la fonte, bensì il segno esteriore della potenza di cui dispongono), a comportarsi nello stesso modo? Che continueranno a gestire e intermediare affari, a inquinare gare, a raccogliere o ricevere tangenti per sé o per altri, a operare sui canali bancari italiani ed esteri di loro pertinenza? E che cosa c’è di singolare o di sospetto nel considerare non già la confessione pura e semplice, bensì il contributo collaborativo allo smantellamento del sottosistema cui apparteneva, come elemento idoneo a provare l’inversione di rotta del soggetto, la sua dissociazione dal programma illegale, la sua inaffìdabilità agli occhi dei sodali superstiti, dunque la cessazione di pericolosità cui consegue la rimessione in libertà? Con amicizia, con balta stima di sempre, con gratitudine per l’occasione di confronto, ti saluta il tuo Francesco Saverio Borrelli Milano, 15 luglio 1993