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L’ultimo arrivato ha settant’anni, la parte destra del corpo paralizzata per un ictus che gli ha tolto l’uso della parola. Deve scontare una pena di tre mesi per un reato risalente agli inizi degli anni Novanta e l’ha scoperto quando è atterrato a Fiumicino dopo vent’anni che mancava dall’Italia. È andato ad occupare l’unica cella libera della sezione, chiusa da quando il precedente “inquilino” è stato trasferito all’obitorio.
“Coma diabetico”, dice Fabrizio, che, all’ora di pranzo, avendo notato il blindo ancora chiuso, è entrato per sincerarsi che fosse tutto a posto. Eppure, nella lenta routine della galera, a quella porta avrebbero dovuto bussare in molti quella mattina, quantomeno la “conta”, l’infermiera, il portavitto. Si sarebbero accorti che da ore quel corpo era immobile, gelido. Anche la morte diventa ordinaria amministrazione in un luogo che pare un lazzaretto più che la sezione penale di un carcere. Poche celle più in là ci sono due persone che soffrono di epilessia con crisi quotidiane che le fanno stramazzare al suolo. È sempre Fabrizio, ex pugile professionista con nozioni di primo soccorso, a prestare le prime cure in attesa che – con calma – arrivi un medico che si limita a rilevare i parametri vitali. Una situazione paradossale, tanto che spesso sono gli stessi agenti a chiedere a Fabrizio di intervenire, con tutti i rischi e le responsabilità che ne derivano. Parlare di cure, visite specialistiche o comunità di recupero è utopia.
Proseguendo la passeggiata lungo il corridoio si contano almeno una decina di ragazzi che assumono Metadone, Subutex o altri surrogati degli stupefacenti per placare le crisi di astinenza. Ridotti come zombie, trascorrono la giornata in attesa della “terapia” e vivono in un’altra dimensione. Come il serbo, che parla con i muri e guarda fuori da una finestra che vede solo lui. Malattie, dipendenze e povertà convivono in questo “non luogo” deputato alla riabilitazione dei derelitti che lo abitano. L’olandese, invece, trascina il peso dei suoi tumori e fatica a tenere a bada i tremori del Parkinson; continua da anni a ripetere che non vede l’ora di essere rimandato al suo Paese per potersi curare, non vuole morire in carcere. Anche il rumeno aspetta l’estradizione per scontare il residuo della pena in patria dove, dice, “almeno posso lavorare”. Turiddu, invece, dopo due decenni di galera avrebbe il diritto di chiedere un permesso di qualche ora ma non ne vuole sapere. Lì fuori non ha più nessuno e nemmeno dentro c’è stato qualcuno che si sia accorto di lui e lo aiuti a superare la paura della libertà.
Proseguendo la camminata lungo il corridoio si incontra “Tapparella”, alla perenne ricerca di un ciuffo di tabacco e qualche cartina, un po’ di caffè, un francobollo, una busta. Qualcun altro si è venduto le scarpe per poter fumare e ora aspetta che il prete, sfiancato dalle suppliche, gli carichi sul conto qualche euro. In carcere si aspetta sempre. Tra “domandine” e mancate risposte, tempi che non si compiono mai, senso di impotenza e incertezza continua, la prigione che raccoglie i rifiuti umani della società rischia di restituire alla libertà uomini non pronti ad affrontarla, perché la galera insegna una sola cosa: come sopravvivere alla galera stessa. Di lavoro, formazione e studio nemmeno l’ombra. Un vuoto acuito dal doppio lockdown rappresentato da sbarre e pandemia che ha ulteriormente isolato gli abitanti del pianeta carcere ai quali non rimane altro che la briscola. In alternativa c’è la televisione, perennemente accesa e sintonizzata sui notiziari.
Pare che tra le riforme imposte dall’Europa come condizione per erogare i fondi del Recovery Plan ci sia anche quella della giustizia, argomento che desta l’interesse anche di coloro che non perdono una puntata di Uomini e donne. “Ma quale riforma?”, sentenzia quello della cella 23 spegnendo gli entusiasmi di quanti prevedono cambiamenti epocali e misure straordinarie per ripristinare la legalità nelle carceri. Si dice che sia un giornalista, ma di lui non si sa molto. Pare che scriva anche per Voci di dentro.
Se ne sta in disparte, parla poco e scarabocchia in continuazione, accumula appunti e legge. Un tipo strano. A lui si rivolgono in molti, italiani e stranieri che gli chiedono di spiegare il contenuto di un documento; altri hanno bisogno dello “zio” per scrivere un’istanza, un sollecito o una lettera alla morosa. Dice che non servono mirabolanti riforme per far funzionare il sistema, basterebbe applicare le norme esistenti. Protetti dalle alte mura che separano i buoni dai cattivi per non turbare le coscienze, per anni abbiamo fatto finta di non vedere quell’umanità nascosta, negata, segregata.
Un giorno “quella gente” lascerà il carcere. È meglio accogliere cittadini recuperabili o relitti senza speranza? Allo stato attuale forse ha ragione il turco, che da anni insiste per essere estradato nelle galere di Erdogan e ripete come un ossesso: “Carcere italiano no buono… Turchia bene”, mimando il volo dell’aereo che, prima o poi, lo riporterà nelle spelonche di Istanbul.