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Nessuno ha mai pensato di inserire, nella legge sull’impegno politico dei magistrati, un divieto assoluto di candidarsi o accettare incarichi di governo. Nessuno, neppure i più contrari, almeno tra le istituzioni che si sono occupate della questione. Il Csm, insieme con l’Anm, è stato più severo di tutti: si può fare politica ma dopo non si rientra in magistratura, casomai nell’Avvocatura dello Stato. Il Parlamento, che neppure nell’ultima legislatura è riuscito a licenziare le nuove norme, ha avuto più comprensione: si può anche reindossare la toga, ma non nel distretto in cui si è stati eletti; in ogni caso nessun divieto assoluto di assumere incarichi politici. Ecco, Nino Di Matteo, il pm più conosciuto del “pool” che ha sostenuto l’accusa al processo Stato– mafia, sposa la versione più severa: «Terminato l’incarico politico, non si torni in magistratura, ma in altri ranghi dello Stato».
Benissimo. Lo ha ripetuto pure due sere fa, nell’intervista rilasciata a Bianca Berlinguer per il programma di RaiTre “Carta bianca”. Ne ha approfittato anche per lamentare la reazione non benevola di Forza Italia e di Silvio Berlusconi alle parole che lui stesso ha pronunciato subito dopo la sentenza sulla “trattativa”: «Ora vogliono far passare per opinioni i dati di fatto: io ho solo spiegato il dispositivo». Sì, ma con una certa libertà: ha detto che il governo Berlusconi non aveva mai denunciato i ricatti di Cosa nostra. Modo curioso di interpretare la sentenza: la stessa Corte che ha condannato, tra gli altri, Marcello Dell’Utri per “minaccia a corpo politico dello Stato”, ha riconosciuto anche alla presidenza del Consiglio assunta da Berlusconi una parte del maxi risarcimento da 10 milioni di euro. Ma al di là della sua opinabilissima lettura dei fatti, qui preme segnalare un altro passaggio dell’intervista del pm. Quello in cui gli viene chiesto se gli interesserebbe fare il ministro, per esempio della Giustizia, e lui risponde: «Sono convinto che un magistrato può essere utile alla politica, in ogni caso non mi sono posto il problema e non credo che nessuno mi chiamerà». Colpiscono due cose: che Di Matteo dia l’impressione ( anche al di là delle proprie intenzioni) di essere quasi indignato, comunque deluso, per la chiamata che non arriva; ma anche il fatto stesso che il reclutamento effettivamente non ci sia stato, neppure negli esecutivi virtuali vagheggiati prima e dopo il voto dai cinquestelle.
Rispetto alla prima questione, va detto che già in passato l’attuale sostituto della Procura nazionale Antimafia si era mostrato disponibile ad assumere incarichi politici. Era stato piuttosto esplicito nell’ormai celebre convegno organizzato dai grillini alla Camera il 1° giugno dello scorso anno, quando disse di non escludere l’eventualità ( e visto il contesto, sembrò una chiara apertura ai grillini). Va tutto bene. Non sarebbe il primo pm a tuffarsi nella mischia. C’è un però: se nella stessa intervista in cui difende l’interpretazione anti– berlusconiana da lui data alla sentenza di un suo processo, lascia poi trasparire una sorta di “attesa” per la chiamata, Di Matteo getta un’ombra gigantesca sulla propria imparzialità di magistrato. Fa cioè temere che, nello stesso accertamento della verità perseguito come pm della Procura di Palermo, possa essersi lasciato condizionare dalle proprie convinzioni politiche, probabilmente anti– berlusconiane. Non è detto che Di Matteo sia un anti– Cav, ma è certo che gli spettatori di “Carta bianca” abbiano tutto il diritto di sospettarlo.
Secondo punto: come si diceva, la chiamata dal M5s ancora non c’è stata. E forse non ci sarà. Mesi fa Alessandro Di Battista fu assai sbrigativo nel proclamare una sorta di veto sui magistrati– ministri, tanto da lasciar credere che lo stesso Luigi Di Maio concordasse sul punto. Ma si tratta davvero di una “ostatività” generalizzata? Forse no. Forse il Movimento cinquestelle, unica forza politica che comunque potrebbe pensare a Di Matteo come ministro, deve aver acquisito un dato: nel caso del pm siciliano c’è un’incompatibilità specifica, soggettiva. Ed è chiaro il perché. Di Matteo dà l’impressione ( poi magari non è vero, ma la dà) di essere effettivamente un antiberlusconiano. Non solo: di avercela con una certa vecchia politica, con la Dc, con i partiti della prima Repubblica, e così via. Di essere insomma politicamente assimilabile a un’antipolitica da seconda Repubblica: la Rete di Orlando, la sinistra del Popolo Viola e ( appunto) delle Agende rosse, forse il primo Di Pietro. Ed è per questo che non è spendibile. Perché quell’opzione politico– ideologica presupponeva che qualcosa di buono, nell’altra politica, potesse esserci. Che rispetto anche alla vecchia Dc, a Berlusconi, potessero trovarsi delle controparti degne del voto, di considerazione, Politologicamente, cioè, Di Matteo si colloca appieno nella seconda Repubblica. Quando una parte del Paese riteneva ci fosse un “male” più o meno assoluto ( Berlusconi) ma anche un “bene” con cui schierarsi ( per esempio il centrosinistra legalitario e difensore della Costituzione). E questo non va bene, per il M5s. Perché nell’ottica grillina la vecchia politica deve fare schifo. Tutta. Altrimenti, se ne legittimi una parte, perdi il controllo. Non può esserci più il pregiudizio incondizionato che legittima una sola opzione, quella grillina. Dal punto di vista dei cinquestelle, insomma, Di Matteo è una sorta di nostalgico, un uomo fuori dal tempo, da seconda Repubblica. Ancora crede ci sia una politica da salvare. Non ha capito che bisogna buttare via tutto. Se no finisce che non ne resterà uno solo, come dice il film e come spera Di Maio.