Non c’è fine all’incubo di Daniela Poggiali, “l’infermiera killer” di Lugo di Romagna assolta per la terza volta in appello dopo sette anni di battaglie giudiziarie e quasi quattro di carcere. La procura di Bologna ha infatti annunciato di voler ricorrere in Cassazione contro la sentenza dello scorso ottobre che assolve Poggiali con la formula più ampia - perché “il fatto non sussiste”. Una decisione - scrivono i suoi difensori Alessandro Gamberini, Gaetano Insolera, Lorenzo Valgimigli - che «non tiene conto del principio costituzionale che impone una ragionevole durata del processo, posto anche a tutela del cittadino che non può essere esposto a un giudizio penale interminabile: un ergastolo processuale». L'ultimo atto di questa «via crucis giudiziaria» risale allo scorso ottobre, quando i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Bologna si sono pronunciati con una doppia sentenza di assoluzione per l'ex infermiera, accusata della morte di Rosa Calderoni, 78 anni, e di Massimo Montanari, 94 anni, deceduti entrambi all’ospedale di Lugo, nel Ravennate, nella primavera del 2014. Nel caso Calderoni, ricordano i legali, «si tratta della terza sentenza assolutoria in grado di appello, come le due precedenti con la formula più ampia, perché il fatto non sussiste nei confronti dell’imputata condannata all’ergastolo in primo grado». E «il preannuncio di un nuovo ricorso dopo che ben diciotto giudici di merito in grado di appello hanno deciso per l’innocenza», prosegue la nota, appena ancora  più irragionevole in quanto «l’accusa reca con sé un carico di infamia e la pena dell’ergastolo». «Una vicenda processuale di questo tipo è, a nostra conoscenza, senza precedenti - scrivono i legali -. L’iniziativa appare volta a ridare voce a una inchiesta ravvenate che è stata fortemente censurata da tutte le sentenze assolutorie d’appello, in particolare da quest’ultima, ampiamente motivata in 270 pagine all’esito di una rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, conforme a quanto la Corte di Cassazione aveva indicato». Secondo i difensori di Poggiali, ad orientare il processo, fin dall'inizio, «fu una grande forzatura mediatica, soprattutto a livello locale». Una campagna mediatica orientata dagli organi inquirenti «sull’onda della fisionomia personologica dell’imputata» che poté condizionare il giudizio. Soprattutto per via di uno scatto, una foto che ritraeva l’ex infermiera vicino a un paziente deceduto mentre mostrava le dita in segno di vittoria, che ha contribuito più di ogni perizia scientifica all’immagine del “mostro”, della colpevolezza incontrovertibile.