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CORTE COSTITUZIONALE PALAZZO DELLA CONSULTA CONSULTA
Quando un reclamo parte da dentro le mura del carcere, le ore scandiscono non solo il passare del tempo, ma il confine tra un diritto e la sua negazione. La sentenza numero 78/ 2025 della Corte costituzionale pone l’accento proprio su questa linea sottile: il termine di ventiquattro ore entro cui un detenuto può presentare reclamo contro il diniego di un permesso di necessità è risultato “troppo breve” per rispettare il diritto di difesa sancito dall’articolo 24 della Costituzione. La Corte ha così dichiarato incostituzionale il terzo comma dell’articolo 30- bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, imponendo al legislatore di allargare da ventiquattro ore a quindici giorni il termine per proporre reclamo.
Il caso che ha portato alla Corte costituzionale il problema nasce nel febbraio 2024, quando un detenuto – indicato negli atti come V. M. – chiede un permesso di necessità per far visita alla sorella, affetta da grave patologia tumorale con metastasi. La sorella, secondo il medico legale, non è in imminente pericolo di vita; il magistrato di sorveglianza, il 4 aprile 2024, respinge la richiesta. La notifica del diniego arriva a V. M. il 6 aprile. La legge ( articolo 30- bis, comma 3), ora dichiarata incostituzionale, prevede che, entro ventiquattro ore dalla comunicazione, il detenuto può proporre reclamo al tribunale di sorveglianza. Così è avvenuto: lo stesso 6 aprile il detenuto, attraverso il difensore, deposita un reclamo senza motivi, riservandosi di fornirli in seguito.
Nel frattempo, ottiene solo l’ 8 aprile copia degli atti (relazione del medico legale e note della Questura). Soltanto il 16 aprile, una volta in possesso dei documenti, il difensore presenta il reclamo motivato. Peccato che il termine delle ventiquattro ore fosse già scaduto: a norma dell’articolo impugnato, il tribunale di sorveglianza avrebbe dovuto dichiarare inammissibile qualsiasi reclamo presentato oltre il giorno successivo alla notifica del provvedimento.
UN TERMINE “INTRANSIGENTE” PER IL DIRITTO DI DIFESA
Non è la prima volta che la Corte costituzionale si trova di fronte a un problema simile. Già nella sentenza n. 113 del 2020 aveva dichiarato l’incostituzionalità del termine di ventiquattro ore per i permessi premio, ricordando che un termine così breve non consente né di consultare un avvocato, né di ottenere copie dei documenti fondamentali per motivare un reclamo conforme ai requisiti processuali. Nel caso dei permessi di necessità, l’urgenza appare ancora più accentuata: il detenuto invoca un motivo di carattere affettivo- emotivo, legato alla salute di un familiare. Ma, come osserva la Corte, proprio per questa ragione sarebbe ancora più necessario garantire un termine congruo, non comprimibile in ventiquattro ore, se si vuole evitare di rendere meramente formale la possibilità di reclamo.
La Consulta ricorda che il diritto di difesa “in ogni stato e grado” comprende anche il tempo ragionevole per raccogliere le informazioni su cui basare le proprie ragioni. Per chi si trova ristretto in una cella, chiedere al carcere di ricevere in un giorno soltanto le carte su cui si fonda il diniego, consultarle con un avvocato e poi redigere un atto con motivazioni articolate rappresenta un’impresa quasi impossibile. A questo si aggiunge la pratica – sottolineata dalla giurisprudenza della Cassazione – secondo cui il reclamo deve contenere specifici motivi di fatto e di diritto, pena l’inammissibilità dell’impugnazione stessa.
La vicenda del detenuto V. M. è esemplare: ha depositato reclamo il giorno stesso della notifica, ma senza motivarlo, rinviando a un secondo momento la spiegazione delle ragioni. Quando il difensore ha potuto svolgere l’istruttoria, erano già trascorsi dieci giorni: a norma della norma censurata, che non ammette integrazioni ex post, il tribunale avrebbe dovuto rigettare il reclamo. Il Tribunale di sorveglianza di Sassari, invece, ha deciso di sollevare la questione di legittimità costituzionale, ritenendo che un termine così breve violasse non soltanto il diritto di difesa (articolo 24 Cost.), ma anche il principio di uguaglianza e ragionevolezza (articolo 3 Cost.), giacché per i permessi premio la Corte aveva già stabilito un termine di quindici giorni. Così, per evitare disparità tra permessi di diversa natura – benché diversi per finalità – il Tribunale ha chiesto alla Consulta di intervenire.
La Corte costituzionale, nella camera di consiglio del 7 aprile 2025, concorda con il Tribunale di Sassari: il termine di ventiquattro ore, novello archetipo del “tempo sospeso”, è incompatibile con la Costituzione. Il ragionamento si sviluppa in due punti chiave. Innanzitutto, il termine perentorio di ventiquattro ore, senza possibilità di riserva dei motivi, impedisce di fatto all’interessato di articolare un reclamo effettivo. In secondo luogo, per chi è detenuto l’accesso agli atti – di norma custoditi nelle cancellerie – non è immediato: serve tempo aggiuntivo per richiederli, ottenerli e studiarli, magari con l’aiuto di un consulente tecnico o medico. Nel caso specifico, la sorella sofferente e la relazione del medico legale – depositata il 4 aprile e notificata solo l’ 8 aprile – erano elementi decisivi per il merito: ma erano sconosciuti all’istante fino agli ultimi giorni utili per l’impugnazione.
UN CAMBIO DI PROSPETTIVA PER IL LEGISLATORE
Alla fine la Consulta ridefinisce il confine: dichiara incostituzionale l’articolo 30- bis, comma 3, nella parte in cui prevede che il detenuto debba proporre reclamo nel termine di ventiquattro ore, e stabilisce che, per garantire il pieno esercizio del diritto di difesa, il termine sia elevato a quindici giorni, «già previsto in via generale» dall’articolo 35- bis per ogni impugnazione contro decisioni delle autorità penitenziarie. Resta ferma la possibilità, scrivono i giudici, che il Parlamento introduca una disciplina diversa, purché adeguata ad assicurare il diritto di difesa. Ciò significa che il legislatore potrà, sulla scorta della sentenza, stabilire un termine più breve o più lungo, a condizione che sia “idoneo”.
Nella stessa sentenza, però, la Corte ribadisce che il termine di ventiquattro ore perentorie rimane valido per il reclamo del pubblico ministero. Se si trasferisse anche al pm il termine di quindici giorni, si creerebbe un paradosso: in caso di accoglimento del permesso da parte del magistrato, sarebbe sospesa l’esecuzione del provvedimento fino al termine di impugnazione, con un effetto contrario alle ragioni di urgenza poste alla base del permesso di necessità. Così è il legislatore, e sinora è stato il magistrato di sorveglianza, che dovrà stabilire se bilanciare in modo diverso le esigenze. La sentenza avrà effetti immediati.
Da un lato, i tribunali di sorveglianza in tutta Italia dovranno applicare il nuovo termine di quindici giorni per i reclami presentati dai detenuti respinti nella richiesta di permessi di necessità. Dall’altro, il Parlamento è chiamato a rivedere la disposizione di legge, definendo una misura che tenga conto della Corte, altrimenti rischia di incorrere in una nuova declaratoria di incostituzionalità. Il diritto di difesa non è uno slogan, è una concreta serie di garanzie, fra cui la possibilità di conoscere gli atti, riflettere, confrontarsi, scrivere un testo che risponda alle esigenze del giudice di sorveglianza. La Consulta, di fatto, costringe il legislatore a considerare che ogni volta che si tagliano i tempi, si rischia di tagliare anche la dignità.