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I notabili locali al posto delle correnti. È questo il rischio insito al sistema elettorale previsto dalla riforma Bonafede, secondo il Consiglio superiore della magistratura, in quanto, riducendo i collegi elettorali, agevolerebbe le candidature individuali, garantendo la molteplicità delle provenienze territoriali dei componenti. E ciò senza avere, come esito, «una adeguata rappresentanza», in seno al Csm, delle funzioni di legittimità e merito, giudicanti e requirenti, bensì rafforzando «il collegamento territoriale tra elettori e eletti». Il rischio, dunque, sarebbe quello di sostituire al peso delle correnti quello dei notabilati locali. Un parere pesante, quello approvato ieri a maggioranza (18 voti favorevoli, 2 contrari e un astenuto) dal plenum del Csm, che si è espresso sulla riforma nel merito del sistema elettorale dell’organo di autogoverno. Nel documento approvato (di cui è stato relatore il togato Sebastiano Ardita), Palazzo dei Marescialli ha evidenziato che uno dei potenziali vantaggi della riforma sarebbe quello di avvicinare i candidati agli elettori, favorendo la rappresentanza di genere e, infine, promuovendo candidature «non formalmente collegate alle correnti della magistratura». Ma sarebbero diverse le criticità - ha evidenziato Ardita - che renderebbero tale sistema non idoneo allo scopo, «nonché foriero di effetti distorsivi». Il consigliere togato ha evidenziato come il sistema maggioritario uninominale, pur assicurando la governabilità, censuri la rappresentatività e il pluralismo, escludendo le minoranze. «Il sistema attuale prevede una composizione del Consiglio, per la parte togata, suddivisa in componenti eletti con funzioni di legittimità e di merito, questi ultimi ulteriormente distinti tra giudicanti e requirenti», si legge nella relazione. Il tutto allo scopo di garantire la rappresentanza dei diversi saperi ed esigenze della magistratura. Il sistema delineato dal ddl, invece, «prevede che questa suddivisione in categorie sia limitata al minimo, essendo prevista esclusivamente l’elezione di due componenti di legittimità e 18 componenti di merito, senza altre distinzioni». Previsione fortemente criticata dall’avvocatura, soprattutto tra i penalisti. «Con una certa probabilità - ha sottolineato Ardita nella sua relazione - saranno i magistrati requirenti ad essere sovra rappresentati, per la notorietà e l’esposizione mediatica che spesso si accompagna allo svolgimento di determinate indagini». Ma non solo: nel parere viene definito «inadeguato» il collegamento tra il territorio e la componente consiliare. Se, da un lato, lo stesso favorisce la conoscenza delle diverse realtà territoriali, «patrimonio utile per lo svolgimento delle funzioni consiliari», dall’altro è necessario ricordare che il Consiglio «gestisce l’organizzazione della giurisdizione nella sua dimensione nazionale e deve necessariamente rifuggire alle pressioni e alle istanze localistiche». Motivo per cui, rafforzando il collegamento territoriale tra elettori ed eletti «si corre il serio rischio di sostituire, o peggio, di aggiungere, al peso di gruppi associativi anche quello dei notabilati locali, fenomeno deteriore anche più del correntismo in quanto caratterizzato da opacità di relazioni e da assenza di orizzonte culturale». Nel corso della discussione di ieri, il togato Nino Di Matteo, ha manifestato la propria contrarietà alla parte della norma relativa al ricollocamento in ruolo dei magistrati che hanno fatto parte del Csm. Per quattro anni, stando al ddl, gli ex consiglieri non potrebbero ambire a ruoli direttivi o semidirettivi. Per Di Matteo si tratterebbe di una sorta di punizione, una norma «manifesto», che porrebbe magistrati d’esperienza di fronte ad un bivio: scegliere gli occupare una poltrona al Csm o la carriera. Ciò, ha evidenziato Di Matteo - col quale era d’accordo il laico Alessio Lanzi - produrrebbe un chiaro effetto: «Al Csm ambirebbero sempre di più giovani rampanti che hanno avuto già accesso a incarichi direttivi o semidirettivi» o giovani che avrebbero tempo di ambire a posti apicali, infine magistrati a fine carriera, che quindi dopo aver fatto parte del Csm potrebbero ben rassegnarsi a non fare domande per incarichi direttivi o semidirettivi, perché avrebbero terminato il loro impegno in magistratura. Una norma sbagliata, secondo Di Matteo, che disincentiverebbe le candidature e che sarebbe discriminatoria rispetto a quanto previsto per i magistrati eletti in politica, il cui “esilio” durerebbe solo due anni. Ma contro Di Matteo si è scagliato il togato Carmelo Celentano, che ha contestato i l’idea secondo cui i magistrati sarebbero titolari di un diritto a fare carriera. «Dobbiamo abituarci a pensare che non è necessariamente così - ha evidenziato -. Ho aderito a Unità per la Costituzione, moltissimi anni fa, perché nel documento fondativo del ‘79 c'era scritto che bisognerebbe combattere per modificare l’ordinamento giudiziario per prevedere che si possa ricoprire un ruolo apicale solo una volta nella vita. Oggi la degenerazione ci ha portati a questo ed io penso che immaginare una norma che ci aiuti a rompere in questo momento storico è accettabile, proprio per impedire che questa smania di carriera determini quei fenomeni di correntismo che ci troviamo tutti i giorni ad esaminare». Secondo Lanzi, invece, si tratterebbe di un dato oggettivo: «Il Consiglio sarebbe, di fatto, vietato ad un over 60 che giustamente ritiene di voler usufruire nella sua vita anche di un incarico direttivo. Eliminare questa categoria significherebbe eliminare la possibilità di usufruire di magistrati capaci». Una scelta assurda, ha concluso. Ma l’emendamento non ha superato il vaglio della maggioranza.