La giustizia ha i suoi tempi. Certo. Andatelo a dire a un uomo di quasi 86 anni che ne ha trascorsi 10 tra carcere militare e domiciliari. Quell’uomo esiste, si chiama Bruno Contrada e vi risponderà come ha fatto ieri: «Ventiquattr’ore fa la Cassazione ha annullato senza rinvio la mia condanna a dieci anni, che era stata emessa dalla Corte d’Appello nel 2006, quindi non sono più colpevole... ma io lo dico da 25 anni che sono innocente». Chiaro? C’è voluto un quarto di secolo di supplizi giudiziari perché fosse riconosciuta l’innocenza dell’ex numero 2 del Sisde. E ci sono voluti due gradi di giudizio affinché la giurisdizione italiana recepisse la pronuncia emessa dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo il 14 marzo 2015.

Secondo i giudici di Strasburgo, Contrada era stato condannato in via definitiva per un reato, il concorso esterno in associazione mafiosa, che all’epoca dei fatti contestati ( tra il 1979 e il 1988) non era definito con chiarezza dal diritto italiano, quindi l’ex poliziotto non poteva essere processato né punito; l’altro ieri la Suprema corte ha annullato senza rinvio l’ordinanza con cui la Corte d’Appello di Palermo nell’ottobre 2016 aveva dichiarato inammissibile l’istanza di revoca della condanna del 2006, presentata dall’avvocato Stefano Giordano. Secondo il dispositivo della Cassazione, la sentenza emessa 11 anni fa dai giudici di Palermo è «ineseguibile e improduttiva di effetti penali». Vuol dire tra le altre cose che il sistema giudiziario italiano riconosce il diritto di Contrada a ottenere un maxi risarcimento per ingiusta detenzione. E, qauasi certamente, anche il pagamento degli emolumenti, pensione compresa, a cui avrebbe avuto diritto come servitore dello Stato in tutti questi anni. «Chiederemo il reintegro in Polizia», annuncia infatti il suo legale.

Sentenza rivoluzionaria. Perché sancisce anche nel diritto nazionale che non si può essere condannati per concorso esterno in associazione mafiosa in virtù di fatti risalenti a prima del 1994. E perché, quindi, si spalanca la possibilità di revoca della condanna anche per Marcello Dell’Utri: stesso reato contestato e analoga impossibilità di contestarlo, perché anche per lui i fatti sono antecedenti al 1994, anno in cui la giurisprudenza definì il reato. Certo, Contrada ha potuto agire con l’incidente di esecuzione sulla base di una pronuncia europea relativa al suo specifico caso. E non esiste alcun automatismo, rispetto all’applicabilità ad altre vicende giudiziarie, del principio sancito nel 2015 da Strasburgo per Contrada. Ma la possibilità che la storica pronuncia della Cassazione possa riverberarsi anche sul caso di Dell’Utri non è così remota.

D’altronde le sezioni unite hanno sicuramente stabilito che se la Corte europea sancisce l’inapplicabilità di una determinata fattispecie penale a fatti di un certo periodo, tale inapplicabilità deve determinare la revoca della condanna inflitta in Italia. Del tutto ragionevole ma non tecnicamente scontato. Contrada lo sa. «Ero mentalmente predisposto ad avere l’ennesima delusione, non ero psicologi- camente preparato alla revoca della condanna: non credevo più di avere giustizia», dice ora l’ex 007.

Non nasconde la commozione. «Dopo 25 anni di sofferenza, mezzo secolo di dolore, sapendo di essere innocente e di avere servito con onore lo Stato, le istituzioni e la patria, arriva finalmente l’assoluzione, dall’Italia e dall’Europa», commenta a caldo. Ringrazia la moglie «che mi è stata sempre vicino». Ripete di essersi vista «devastata la vita», ma anche che «la dignità non me l’hanno mai tolta». L’ex numero 2 del Sisde quasi non ci crede ma è lucidissimo quando nel primo pomeriggio accoglie i cronisti insieme con il suo difensore. E spiega: «Non ho mai pensato di fare cadere le colpe sugli altri, amici o nemici che fossero». Poi descrive il carcere, «lo stridore della chiave nella serratura e il rumore del blindato che mi chiudeva in una cella: quello è stato un momento che non auguro neppure al mio più acerrimo nemico». Spiega che «per avere un’idea di cosa è la sofferenza del carcere bisogna averla provata: non c’è nessun trattato o libro che può descriverla». L’altro suo difensore, il professore dell’università di Bologna Vittorio Manes, evoca il principio sancito dalla pronuncia di Strasburgo: «Al momento dei fatti la legge italiana non era chiara, né certa né prevedibile, e la garanzia della chiarezza e prevedibilità della legge penale è un diritto fondamentale, che vale per tutti». Ma il pm Nino Di Matteo non la pensa così: a suo giudizio i fatti contestati continuano a rappresentare «rapporti di grave collusione con la mafia». Più o meno contemporaneamente chiedono a Contrada cosa farebbe se incontrasse Ingroia, altro suo accusatore: «Niente, mi limiterei a cambiare marciapiede». In realtà per l’ex 007 il problema della prevedibilità del rilievo penale dei suoi comportamenti non si pone neppure, perché, dice, «quando sono stato condannato in primo grado a 10 anni di reclusione nel 1996, dichiarai che qualora avessi commesso quei fatti avrei meritato non 10 anni di carcere ma la fucilazione alla schiena per alto tradimento. E oggi lo ribadisco: dico al mondo intero e di fronte alla mia coscienza che io quei fatti non li ho commessi, sono tutte invenzioni di efferati criminali pagati dallo Stato».