4. La magistratura nell’architettura costituzionale.

La tragica esperienza del ventennio fascista rese dunque evidente la portata del nodo nevralgico dei rapporti fra la giurisdizione e il potere politico.

All’esito di un alto e serrato dibattito fra le diverse posizioni culturali e ideologiche presenti ai lavori, prima della seconda sottocommissione e poi dell’assemblea costituente, fra il novembre e il dicembre del 1947, prevalse, seppure non integralmente, il progetto presentato da Piero Calamandrei, che rivendicava l’autonomia del potere giudiziario e l’indipendenza dell’intera magistratura, giudicante e requirente, nel perseguimento del comune fine di giustizia e di garanzia dei diritti dei cittadini.

Il Titolo IV della Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948 è rubricato “La Magistratura”, per rappresenare con chiarezza la simmetria costituzionale con i titoli sul Parlamento e sul Governo e per significare l’equi- ordinazione rispetto agli altri due Poteri.

Oltre le pur importanti disposizioni sulle garanzie ordinamentali e professionali dei magistrati, due sembrano le norme chiave, che segnano la netta cesura col regime fascista e il passaggio al sistema democratico dello Stato di diritto: gli artt. 104 e 101 della Costituzione.

L’art. 104, comma 1, definisce la magistratura “ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” e ne affida il presidio a un organo di governo autonomo, il Consiglio superiore della magistratura - insediatosi peraltro solo nel 1959 -, al cui vertice è posto il Presidente della Repubblica ( comma 2), con competenze estese alle assunzioni, assegnazioni e trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari ( art. 105).

Secondo l’art. 101, a sua volta, i giudici amministrano la giustizia “in nome del popolo” ( comma 1) e i giudici “sono soggetti soltanto alla legge”: vincolo, questo, rafforzato dalla prescrizione dell’art. 111, comma 6, per il quale “tutti i provvedi- menti giurisdizionali devono essere motivati”.

La garanzia costituzionale dell’indipendenza e dell’autogoverno, nell’intento del Costituente, è diretta ad assicurare, insieme con l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti della persona. L’esercizio della giurisdizione viene affidato in via esclusiva ai magistrati, funzionari dello Stato non elettivi, la cui opera di valutazione delle prove e del fatto e di interpretazione e applicazione delle norme, siccome soggetta solo alla legge, si vuole sottratta alle mutevoli logiche e ai condizionamenti delle maggioranze politiche e del consenso popolare, contro ogni abuso dell’autorità.

Una concezione, questa, ben distante da quella giacobina, per la quale anche il magistrato dev’essere espressione della volontà del popolo; un’eccezione, forse, al principio di partecipazione democratica, ma rispondente alla precisa e comune volontà del Costituente di liberare i magistrati dai vincoli che lo stringevano all’esecutivo e al potere politico.

L’assemblea costituente, recependo il modello disegnato da Calamandrei, decise che anche il Pubblico Ministero dovesse appartenere all’unico ordine giudiziario, sulla base di una comune cultura della giurisdizione, e fruire, pure in considerazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale ( art. 112), della medesima garanzia di indipendenza dei giudici.

4.1. La separazione delle carriere.

Occorre, a questo proposito, svolgere alcune considerazioni critiche rispetto alla, pur legittima e autorevole, proposta legislativa di separazione delle carriere ( oltre che delle funzioni) dei magistrati.

Il progetto, oltre a destrutturare larga parte del modello costituzionale sull’ordinamento professionale della magistratura, sul sistema di autogoverno del CSM, sulla obbligatorietà dell’azione penale ecc., potrebbe a mio avviso determinare, di riflesso, una più spiccata autoreferenzialità ( anche nei rapporti con la narrazione mediatica e con l’opinione pubblica) e una ancora più accentuata indifferenza della pubblica accusa rispetto alle sorti del processo. Con il conseguente rischio che prevalgano logiche di chiusura corporativa, opposte alla linea, tracciata da Calamandrei, dell’attrazione ordinamentale della figura del pubblico ministero nel sistema e nella cultura della giurisdizione.

Merita attenzione, viceversa, la proposta alternativa di aprire più pregnanti finestre di controllo giurisdizionale in taluni momenti topici delle indagini preliminari ( iscrizione nel registro degli indagati, durata delle indagini, scelte imputative incidenti sui differenti binari processuali ecc.), oltre quelle già disciplinate dalla legge ( proroga delle indagini, misure cautelari personali e reali, intercettazioni, esercizio o non dell’azione penale ecc.), anziché introdurre interventi di tipo gerarchico o disciplinare, che esaltano vieppiù la logica di separatezza dell’ufficio del pubblico ministero e si rivelano potenzialmente compressivi dell’indipendenza interna dei singoli magistrati dell’ufficio.

5. L’avvocatura e la Costituzione.

Il titolo IV della Costituzione, coerentemente con la sua intitolazione, riferita esclusivamente a “La Magistratura”, non contiene riferimenti espliciti alla professione di avvocato, il cui ruolo tecnico non sembrerebbe rivestire rilevanza costituzionale.

Eppure, guardando in controluce le disposizioni costituzionali, in diversi articoli si rinvengono indizi sintomatici di una, sia pure implicita, considerazione della figura dell’avvocato quale compartecipe dell’attività giurisdizionale e, quindi, di soggetto che trova nella Costituzione una sua collocazione.

In primo luogo l’art. 24 ( ma cons. anche l’art. 6, terzo comma, della Convenzione EDU e l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE), che, stabilendo l’inviolabilità del diritto alla difesa e il diritto dei non abbienti ad avere assicurati i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione, rende costituzionalmente rilevante la difesa tecnica dell’avvocato, la quale, salvo poche eccezioni limitate ad alcune categorie di controversie, è indispensabile per garantire l’effettività della tutela giurisdizionale di quel diritto inviolabile.

Inoltre, un riconoscimento della professionalità e rilevanza pubblica dell’attività forense si rinviene nella scelta della Costituzione di attingere dalla categoria degli avvocati una quota dei soggetti chiamati a comporre organi costituzionali o di rilievo costituzionale. Così, l’art. 104, comma 4, prevede che gli avvocati, dopo 15 anni di esercizio, siano eleggibili al Consiglio Superiore della Magistratura; l’art. 106, comma 3, stabilisce che possono essere nominati all’ufficio di Consiglieri di cassazione gli avvocati con 15 anni di esercizio ed iscrizione negli albi speciali per le giurisdizioni superiori; l’art. 135, comma 2 prevede che possano essere eletti giudici costituzionali gli avvocati dopo 20 anni di esercizio. Ed è significativo che per le istituzioni alle quali appartengono le altre categorie di soggetti eleggibili a queste cariche, la Costituzione espressamente garantisce l’autonomia ordinamentale: per i magistrati all’art. 104 e per i professori universitari all’art. 33, ultimo comma, con riferimento alle istituzioni di cui sono chiamati a fare parte.

Un ulteriore spunto di riflessione è offerto dalla nuova formulazione dell’art. 111 relativo al c. d. “giusto processo”, a seguito della legge costituzionale del 23 novembre 1999 n. 2, che attesta la insostituibile centralità della funzione difensiva dell’avvocato.

La norma, nel sancire al secondo comma che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità” e nel rafforzare la connotazione dialettica del processo, sembra rendere indispensabile - di regola - la difesa tecnica e professionale particolarmente qualificata, diventando il ruolo dell’avvocato nel giudizio quello di un effettivo co- protagonista della giurisdizione. Il necessario tramite, cioè, per la rappresentazione al giudice “terzo e imparziale” della situazione fattuale e giuridica della parte, così da consentire concretamente a questi di amministrare la giustizia “in nome del popolo”, come recita l’art. 101, comma 1, ed esige il principio democratico su cui si fonda la Repubblica italiana ( art. 1, comma 2).

In tale ottica e in coerenza con il prezioso e proficuo dialogo intessuto con la magistratura sia nel campo strettamente processuale ( osservatori, protocolli di udienza, linee guida ecc.), sia sul piano istituzionale, deontologico e della formazione professionale, deve leggersi la richiesta della categoria formulata, in tempi recenti, al fine di vedere inserito nella Costituzione un esplicito riferimento alla figura dell’avvocato e al principio di indipendenza e libertà della professione forense.

Affermava Piero Calamadrei ( nella prefazione alla seconda edizione del suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”): “In realtà l’avvocatura risponde, anche nello Stato autoritario, a un interesse essenzialmente pubblico altrettanto importante quanto quello cui risponde la magistratura: giudici e avvocati sono ugualmente organi della giustizia, sono servitori ugualmente fedeli dello Stato, che affida loro due momenti inseparabili della stessa funzione”. E aggiungeva: “Qualsiasi perfezionamento delle leggi processuali rimarrebbe lettera morta, là dove, tra i giudici e gli avvocati, non fosse sentita, come legge fondamentale della fisiologia giudiziaria, la inesorabile complementarità, ritmica come il doppio battito del cuore, delle loro funzioni”.

La condivisione della missione di giustizia e della cultura della giurisdizione da parte della magistratura e dell’avvocatura, nel reciproco riconoscimento dei rispettivi ruoli e funzioni, ne rafforzerebbe l’indipendenza rispetto al potere politico ( l’una sinergicamente custode e garante dell’indipendenza dell’altra), ne accrescerebbe l’autorevolezza e il prestigio nella società, contribuirebbe a migliorare l’efficienza del sistema, sarebbe altresì “decisiva per la qualità e per lo sviluppo della nostra vita democratica” ( dal messaggio del presidente della Repubblica, On. Sergio Mattarella, al presidente del CNF in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017).

6. Il principio di legalità e il ruolo dell’interprete.

Il primato esclusivo della legge è messo tuttavia in discussione perché è andato crescendo, negli ultimi decenni, il potere d’intervento della giurisdizione.

Il giudice- interprete, nel ricostruire il fatto e nel selezionare la norma da applicare, svolge anche un ruolo di co- formazione o parziale creazione (“invenzione”, direbbe Paolo Grossi) della specifica regola adeguata al caso concreto, svolgendo talora addirittura un’opera di “supplenza” nella governance dell’economia, della politica e delle relazioni umane e sociali e ponendosi, così, al centro del quotidiano dibattito pubblico, anche in virtù dei progressi tecnologici dei mezzi di comunicazione.

Il fenomeno - non solo italiano - dell’allargamento delle prospettive e dell’orizzonte interpretativo e decisorio del giudice affonda le radici nella scarsa chiarezza e coerenza sistematica delle leggi, nella stratificazione e pluralità delle stesse fonti legislative e giurisprudenziali, nazionali e internazionali, nelle trasformazioni della società in continua evoluzione, nella maggiore complessità tecnica delle fattispecie, nell’avanzare impetuoso della scienza e delle nuove tecnologie nel processo.

Come evitare, allora, il rischio che il principio dell’indipendenza, interna ed esterna, della magistratura non sembri una formula vuota di contenuti e non venga giudicato come l’ingiustificato privilegio o prerogativa di una casta, in deroga al principio democratico che vuole ricondurre ogni potere alla volontà del popolo? E che l’asse della legittimazione democratica della magistratura, oggi imperniato sul patto costituzionale fra giudice e legge, si sposti sul terreno del consenso popolare ( c. d. “populismo giudiziario”)?

7. Indipendenza, efficacia e responsabilità dei giudici.

Per fronteggiare le moderne tensioni del principio di legalità, occorre a mio avviso declinare il principio costituzionale dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura in termini radicalmente più impegnativi, nel confronto con la garanzia di concreta effettività della protezione dei diritti della persona nello Stato di diritto e nella nuova dimensione dello statuto del giudice europeo.

Laddove sembra destinato a crescere lo spazio del potere giudiziario (“terribile e odioso”: così lo definivano Montesquieu e Condorcet), deve crescere proporzionalmente il perimetro della responsabilità del giudice che l’esercita, in termini di: imparzialità e terzietà (“agire e apparire agire liberi” da ogni condizionamento o influenza esterna indebita sui procedimenti giudiziari); formazione e maturità professionale; cultura dell’organizzazione; laboriosità e diligenza; ragionevolezza, proporzionalità, trasparenza e comprensibilità delle soluzioni decisorie; capacità di ascolto delle parti e di tutti i protagonisti della giurisdizione ed in particolare del difensore, siccome alimentatore, con la sua libertà di parola, del ragionevole dubbio nella ricerca della verità, perciò naturale “equilibratore tecnico” dell’esercizio del potere giudiziario, oltre che “vigilante delle regole e delle garanzie del processo” ( in questi termini si è espresso il presidente Andrea Mascherin in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2018 del CNF); rispetto della libertà e dignità delle persone; sobrietà, riserbo ed equilibrio anche nei rapporti coi media; rigorosa deontologia professionale; etica del limite e del dubbio.

La Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, n. 12 del 17/ 11/ 2010 ( nella stessa data il Consiglio consultivo dei giudici europei presso il Consiglio d’Europa ha adottato la “Magna Carta dei giudici: principi fondamentali”), afferma decisamente che la “indipendenza”, interna ed esterna, non va considerata come una prerogativa o un privilegio accordato nell’interesse personale dei giudici, bensì come garanzia di libertà, di rispetto dei diritti dell’uomo e dell’applicazione imparziale del diritto ( par. 11).

La stessa Raccomandazione coniuga il principio d’indipendenza con il valore della “efficacia” della giurisdizione, che s’intende come condizione essenziale per la tutela dei diritti della persona, per la certezza del diritto e per la fiducia del pubblico nello Stato di diritto ( par. 30) e consiste nell’emettere decisioni di qualità entro un termine ragionevole e sulla base di un apprezzamento equo delle circostanze ( par. 31).

Ed infine sottolinea, insieme con l’indipendenza della magistratura e l’efficacia della giurisdizione, l’ambito dei “doveri e responsabilità dei giudici” ( par. 59- 71), ribadendo altresì l’esigenza che nella loro attività essi siano guidati da “principi deontologici di condotta professionale” ( par. 72- 74), in sintonia con le legittime aspettative della comunità con riguardo alla qualità, alla comprensibilità, alla tempestività, alla coerenza e alla prevedibilità degli atti e delle decisioni.

8. La legittimazione della magistratura nella società postmoderna: la giurisdizione come “servizio”.

Le scelte del Costituente in materia di ordinamento giurisdizionale hanno una valenza e rilevanza ancora attuali. Le ragioni fondanti e gli equilibri istituzionali vanno perciò preservati e trasmessi alle nuove generazioni.

Il principio d’indipendenza e di autonomia della magistratura - da ogni altro potere e dalla stessa volontà popolare - va declinato, tuttavia, secondo nuovi modelli ordinamentali e deontologici che arricchiscano i contenuti dello statuto professionale del magistrato.

I cittadini hanno sete di legalità e di efficienza della giustizia e chiedono che la legge venga applicata in modo rapido, comprensibile, coerente e uniforme per tutti.

L’esercizio della giurisdizione va inteso, pertanto, come “servizio”, anziché come “potere”, così da implementare, col prestigio e l’autorevolezza della funzione, la legittimazione della magistratura nella società postmoderna e, nel contempo, la fiducia dei cittadini nello Stato di diritto.