Norme sull’equo compenso imperfette, parzialmente efficaci, da rafforzare? È l’opposto della valutazione che propone l’Antitrust sulle misure a tutela dell’avvocatura e di altre professioni, inserite nel decreto fiscale. Secondo l’autorithy la nuova disciplina prefigurerebbe una reintroduzione delle «tariffe» e sarebbe lesiva dei principi di concorrenza. Il giudizio sembra stridere con gli effettivi contenuti della norma sull’equo compenso, che fa riferimento ai «parametri» come a uno degli elementi di cui il giudice dovrà tenere conto, insieme con altri aspetti, nel rideterminare il costo della prestazione. D’altra parte la “segnalazione” inviata ieri dall’Antitrust ai presidenti delle Camere e al presidente del Consiglio rivela ancora una volta come i contenuti delle misure non siano da considerarsi neutri e, quindi, come l’equo compenso rappresenti in ogni caso un’inversione di tendenza rispetto alla politica ribassista che ha duramente provato, negli ultimi anni, l’intero comparto delle professioni.

«Le tariffe professionali fisse e minime costituiscono una grave restrizione della concorrenza secondo consolidati principi antitrust nazionali e comunitari», si afferma nella nota. La disciplina sull’equo compenso, si rileva, introdurrebbe «il principio generale per cui le clausole contrattuali tra professionisti e i clienti che fissino un compenso a livello inferiore dei valori previsti nei parametri individuati dai decreti ministeriali sarebbero da considerare vessatorie e quindi nulle», continua l’Agcm. «La norma, nella misura in cui collega l’equità del compenso ai paramenti tariffari contenuti nei decreti anzidetti, reintroduce di fatto i minimi tariffari, con l’effetto di ostacolare la concorrenza di prezzo tra professionisti nelle relazioni commerciali con tali tipologie di clienti», osserva l’Autorità nella segnalazione, che non chiama in alcun modo in causa una peraltro inesistente incompatibilità dei parametri con il diritto europeo.

Non potrebbe essere diversamente, considerato che quest’ultimo, anche nelle sentenze della Corte di giustizia, è sempre rimasto ancorato al principio secondo cui le soglie, se indicate dall’amministrazione dello Stato, non sono in contrasto con la libera concorrenza perché ispirate alla necessità di un equilibrio sociale complessivo.

Riguardo alla “norma di principio” inserita al Senato per la pubblica amministrazione, l’Antitrust rileva ancora che quest’ultima «è tenuta a garantire il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti» e come sarebbe «dunque preclusa alla Pa la possibilità di accettare prestazioni con compensi inferiori a quelli fissati nei decreti ministeriali». Tramite la disposizione in esame, secondo l’authority, «viene sottratta alla libera contrattazione tra le parti la determinazione del compenso dei professionisti ( ancorché solo con riferimento a determinate categorie di clienti)», e qui si usa l’aggettivo «libera» senza tenere conto degli squilibri del mercato.

Secondo «consolidati principi», prosegue la segnalazione, «le tariffe professionali fisse e minime costituiscono una grave restrizione della concorrenza, in quanto impediscono ai professionisti di adottare comportamenti economici indipendenti e, quindi, di utilizzare il più importante strumento concorrenziale, ossia il prezzo della prestazione», conclude l’Antitrust.