Le pistole rimaste in centrale. I contatti con il pusher. Le bugie sugli assassini. La foto del giovane americano bendato in caserma. L’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, ucciso nella notte tra il 25 e il 26 luglio scorso a Roma, è un puzzle che stenta a comporsi. E che giorno dopo giorno consegna alle cronache nuovi pezzi da sommare a quelli precedenti, cambiando di volta in volta la storia e allargando i filoni d’inchiesta.

Quel che è certo, per ora, sono i nomi dei due indagati: Gabriel Natale Hjorth e Finnegan Lee Elder, due giovani americani che avevano tentato di comprare della cocaina e che, invece, si sono ritrovati in mano della semplice aspirina. Così, dopo aver rubato lo zainetto a Sergio Brugiatelli, l’intermediario con cui avevano contattato per avere la droga, hanno tentato di estorcergli del denaro. E tutto è degenerato, culminando nelle 11 coltellate che hanno ucciso il carabiniere. Disarmato, così come il suo collega Andrea Varriale. Che per giorni, però, ha mentito. Alle 23.30 del 25 luglio i due giovani americani avvicinano Brugiatelli in Piazza Trilussa, chiedendo della cocaina. Lui non ne ha, ma può fargliela avere facilmente. E mentre si avvia assieme a Gabe, Finn rimane seduto su una panchina in Piazza Mastai, con lo zaino di Brugiatelli, al cui interno ci sono il cellulare e i documenti. Natale Hjorth consegna 80 euro, ricevendo in cambio di un involucro di carta stagnola. Ma dentro c’è aspirina.

Il giovane americano non ha il tempo di reagire, perché in piazza, intanto, arrivano i carabinieri, che cercano un uomo non identificato. Tra loro ci sono anche Varriale e Cerciello Rega. Così Gabe e Brugiatelli si separano. Ed è a quel punto, tornando in piazza, che quest’ultimo si accorge che la sua borsa non c’è più. Torna indietro, per chiedere aiuto agli agenti, che lo invitano a fare denuncia il giorno successivo. Ma lui, facendosi prestare un cellulare, contatta il suo stesso telefono, rimasto nella borsa. I due americani, in cambio dello zaino, vogliono 100 euro e un grammo di cocaina, vera questa volta. Brugiatelli chiama allora il 112 e sei minuti dopo, alle 02.10, Cerciello riceve la chiamata che lo porterà verso la morte.

Lui e Varriale devono raggiungere Piazza Gioacchino Belli, dove l’intermediario racconta del furto, ma non della droga. I due carabinieri lo invitano a ricontattare gli americani e fissano ora e luogo dell’appuntamento. Gabe e Finn arrivano alle 02.48, pensando di trovare solo Brugiatelli. Ma ci sono Cerciello e Varriale. La luce è buona e i militari vedono i volti di chi arriva chiaramente. Sono due giovani americani. I militari si avvicinano velocemente e, scrive Varriale nel verbale, si identificano come carabinieri. Ma i due giovani, pensando ad una vendetta di Brugiatelli, reagiscono subito, resistendo al tentativo di bloccaggio. Tutto avviene in quattro minuti, dalle 03.12 alle 03.16: Varriale viene aggredito da Natale Hjort, Cerciello, a pochi passi da lui, ingaggia una colluttazione con Elder. Dopo 240 secondi Cerciello, coperto di sangue, che sgorga dal fianco sinistro, all’altezza del cuore, si accascia e dice: «Mi hanno accoltellato».

Varriale contatta la centrale e nel corso di una telefonata drammatica chiede aiuto, mentre con le mani cerca di fermare il sangue. Ma dice una bugia: ad accoltellare il collega, sostiene, sono stati due magrebini. E così carabinieri e polizia si mettono alla ricerca di due ragazzi di colore. Mario Cerciello Rega muore al Santo Spirito, poco dopo. Le varie fasi dell’omicidio, riprese dalle telecamere, portano però all’hotel dove i due americani sono ospiti. Quando i carabinieri piombano nella loro stanza li trovano confusi e pronti ad andare via.

I due ammettono di aver rubato lo zaino e di aver tentato di estorcere denaro a Brugiatelli. Ed Elder ammette anche di aver affondato la lama più volte nel corpo di Cerciello, ma di non aver capito di aver avuto davanti un carabiniere. Per la procura, sulla colpevolezza dei due americani non c’è alcun dubbio, perché al di là delle loro dichiarazioni ci sono elementi chiari, come il coltello militare e le immagini delle telecamere. Ma il racconto di Varriale ha aperto diversi interrogativi, perché né lui né Cerciello Rega, quella sera, erano armati.

Una consapevolezza che nel caso della vittima - che non aveva il tesserino addosso - è arrivata due giorni dopo l’omicidio, mentre Varriale ha a lungo affermato di aver avuto con sé la pistola e di averla consegnata ad un suo superiore in ospedale. Salvo, poi, una volta confrontate le versioni di altri colleghi, ammettere di averla lasciata in caserma, finendo per essere indagato dalla procura militare per “violata consegna”.

Ma anche il comandante della stazione Farnese Sandro Ottaviani ha mentito, dicendo di aver ricevuto l'arma del collega in ospedale, dichiarazioni ora al vaglio della procura. Una bugia, quella di Varriale, detta per evitare le conseguenze disciplinari del suo gesto. Senza nemmeno un’arma, a garantire la sicurezza dei due militari dovevano esserci, come raccontato in conferenza stampa, quattro volanti nelle immediate vicinanze. Ma stando alla trascrizione della telefonata fatta da Varriale alla centrale operativa, lo stesso non sapeva di avere colleghi dei dintorni. Tanto che la prima auto inviata dalla centrale operativa non vede i due stesi per terra in via Pietro Cossa. E poi c’è la bugia sui magrebini. Che apre altri interrogativi, come quelli sui circa 2mila contatti del pusher Italo Pompei - colui che avrebbe dovuto fornire la droga ai giovani americani - con un uomo dell’Arma. Contatti sui quali ora si cerca di fare chiarezza.