Salone del libro di Torino, il nastro si riavvolge di cinquant'anni. Nella stessa città che negli anni Settanta, gli anni di piombo, imparò a (con) vivere con l'ombra del sangue ad ogni angolo di strada.

A raccontare quella fitta nube di paura in cui era avvolto il capoluogo piemontese e il suo tribunale sono due avvocati: il consigliere del Consiglio nazionale forense Mario Napoli e il penalista Fulvio Gianaria, testimone di quella stagione, entrambi ospiti ieri presso lo stand del Dubbio per un incontro dedicato alla storia di Fulvio Croce, morto per difendere i diritti di quelli che sarebbero diventati i suoi assassini.

La data è impressa nella memoria: 28 aprile 1976. L'allora presidente dell'Ordine di Torino è di ritorno dal suo studio legale, accompagnato soltanto dai faldoni della sua valigetta. Una voce precede gli spari: “Avvocato!”. Fulvio Croce cade sull'asfalto, nel cortile di casa: cinque colpi di pistola pongono fine alla sua vita. Le Brigate Rosse rivendicano il suo omicidio, uno dei primi di quella stagione segnata da almeno trecento attenti e decine di morti soltanto nella città di Torino.

Un anno prima, nel 1976, si era aperto il processo al cosiddetto nucleo storico delle Brigate Rosse, come racconta anche il documentario realizzato da Alessandro Melano e Marino Bronzino per l'Ordine di Torino e proiettato ieri al Salone.

Alla sbarra ci sono, tra gli altri, Renato Curcio, Alberto Franceschini, Prospero Gallinari e Paolo Maurizio Ferrari. I quali tentano subito di bloccare il processo, di cui non riconoscono la legittimità: non intendono difendersi – mettono in chiaro i leader della lotta armata –, al contrario sono loro stessi gli accusatori di quel tribunale dello «Stato borghese» che li deve giudicare. «Se i difensori accettano la nomina – recita il comunicato letto in Aula da Ferrari - saranno ritenuti come collaborazionisti del regime, con le conseguenze che ne potranno derivare». È il cosiddetto “processo di rottura”, teorizzato dal penalista francese Jacques Vergès, che trova spazio per la prima volta in Italia, e in una nuova declinazione, mettendo in crisi il rito penale. Le Br, infatti, rifiutano sia gli avvocati di fiducia che quelli di ufficio: il processo non può svolgersi. Dopo una lunga lista di rinunce, per sbloccare la situazione è l'articolo 130 del codice di procedura penale, il quale prevede che ad assumere la difesa debba essere il presidente dell'Ordine degli avvocati, l'avvocato civilista Fulvio Croce. Che accetta l'incarico insieme alla squadra legale composta, tra gli altri, da Franzo Grande Stevens e Giampaolo Zancan. Fino a quel tragico aprile '76. Con la morte di

Croce si ferma anche il processo, che riprenderà nel 1978 con il secondo collegio difensivo composto anche dall'allora giovanissimo penalista Fulvio Gianaria. «Sono passati 50 anni e parlo anche come superstite», inizia il legale. Che insieme ai colleghi mise in pratica quella particolare “soluzione torinese” che permise al processo di giungere a una sentenza. «Una soluzione innovativa e importante», sottolinea Gianaria: con l'auto-difesa, i difensori d'ufficio riuscirono a garantire la regolarità del processo, senza aver la fiducia dei propri assistiti, che ciononostante non li riconobbero come “avvocati di regime”. Un crinale delicatissimo, come sottolinea anche Mario Napoli. «L'impegno e il giuramento di fedeltà al cliente e all'ordinamento è un tema trasversale, che interroga l'avvocatura in tutto il mondo. E bisogna dire che la “soluzione torinese” non è stata accettata da tutti: per lo stesso Vergès, che ebbi modo di incontrare, il giuramento al cliente era prima del rispetto delle istituzioni». Napoli ricorda ancora che furono 270 gli avvocati torinesi che scrissero per giustificare la propria rinuncia all'incarico. E il motivo era sempre da ricercare nella paura.

«In questo contesto penso alla serenità di Croce, che pur pedinato, decide di non mollare e di pagare con la vita», sottolinea il consigliere Cnf. Memore di quegli anni in cui «il colore delle nostre mattine era sempre grigio». Ogni cosa accaduta in quella fase drammatica, a Torino, va letta con una chiave precisa: la chiave della paura. Che necessariamente orientò le scelte di chi era obiettivo dichiarato della Brigate rosse. «Siamo abituati a parlare di questo fenomeno come di terrorismo. Ma la verità è che tecnicamente – argomenta Gianaria - non si può parlare di terrorismo, perché le azioni armate di questi gruppi non avevano come obiettivo indiscriminato fette di popolazione o persone anonime. Erano più propriamente degli assassini politici, che avevano obiettivi mirati: i direttori del personale delle fabbriche, i poliziotti, i magistrati... Il mio ricordo è di un paese che era fortemente turbato, anche se la paura non era “diffusa”: i cittadini avevano la consapevolezza che non si trattava di un rischio senza nome. Per un altro verso, invece, i potenziali obiettivi sapevano di dover avere paura». Come Fulvio Croce sapeva di rischiare la vita.