È stata depositata la sentenza del Consiglio di Stato sullappello degli Ordini forensi di Roma e Napoli contro la decisione del Tar, che aveva dato ragione al Mef sullavviso di conferimento di incarichi di consulenza in campo giuridico a titolo gratuito, pubblicato a febbraio 2019. Il ricorso al Tar si basava sulla violazione della Costituzione, tra cui gli articoli 1 (visto che la Repubblica non è fondata sul lavoro gratuito...) e 36 (zero euro non pare essere una retribuzione proporzionata), oltre che della disciplina sullequo compenso (articoli 13-bis della legge 247/2012 e 19-quaterdecies del Dl 148/2017). Il Tar aveva respinto il ricorso con una serie di motivazioni, tra cui il fatto che non vi fosse alcun rapporto di lavoro, visto che il professionista poteva dimettersi (ma questo possono farlo anche i lavoratori dipendenti...), e che non era indicato loggetto specifico della consulenza (ma questo capita spesso in ambito professionale, e non per questo si lavora gratis), e che la gratuità era compatibile con lordinamento giuridico, considerato che non ci sono specifici divieti (non cè neppure un divieto esplicito di cannibalismo, ma non per questo si può mangiare un giudice...), e che comunque la disciplina dellequo compenso non impedisce di lavorare gratis, visto che va applicata solo quando è previsto un compenso (ma se è così, che senso ha fare una norma che impone un equo compenso, quando poi basta prevedere la gratuità?). Incredibili sono poi i richiami del Tar sui generici vantaggi che lattività di consulenza gratuita può offrire come arricchimento professionale (ma non dovevano essere già esperti, i professionisti?), e che limpegno del professionista deve essere indipendente dalla remunerazione (forse nellUnione Sovietica...). A fronte di queste motivazioni surreali, gli Ordini di Roma e Napoli si sono rivolti al Consiglio di Stato, sostenendo lillegittimità della sentenza per erroneità e/o carenza della motivazione, oltre a illogicità e contraddittorietà manifesta, a cui si sono aggiunte specifiche contestazioni sullavviso, anche alla luce del Codice dei contratti e delle Linee guida Anac sullaffidamento dei servizi legali (in cui è previsto che la prestazione abbia un valore). Il Consiglio di Stato ha ritenuto lappello fondato per quanto riguardava lindeterminatezza dellavviso, che non garantiva limparzialità nella selezione, e quindi il buon andamento dellazione amministrativa. Invece sono state respinte le richieste sul fronte dellequo compenso, e quello della disapplicazione della normativa sugli appalti. Relativamente a questo ultimo punto, il Consiglio di Stato ha evidenziato gli elementi dellavviso che lo sottraevano alla disciplina dellappalto di servizi, configurandosi come un contratto dopera professionale. Riguardo invece linammissibilità della mancanza di un compenso, il Consiglio di Stato ha ribadito che larticolo 36 della Costituzione non è applicabile al caso in specie, in quanto rientra nella libertà di ciascuno lavorare gratis, e che può essere sufficiente la gratificazione di rendersi utili alla cosa pubblica, e inoltre che il principio dellequo compenso vale quando è prevista una remunerazione, ma non quando questa non cè. Al riguardo chiunque potrebbe osservare che una cosa è rinunciare alla remunerazione per unattività lavorativa (si attende il buon esempio dei giudici amministrativi...), unaltra è che una Pa richieda (anzi pretenda) una prestazione gratuita, in violazione anche dei principi di equità, che emergono con chiarezza dalla Carta costituzionale. E se è vero che lattività può essere gratuita (ma non sempre lo è) nel Terzo settore, è altrettanto vero che 3,2 milioni di dipendenti pubblici (compresi i giudici che hanno scritto queste sentenze) sono pagati per il loro lavoro, e non si capisce perché dei professionisti non debbano esserlo per unattività analoga. Cè però almeno un barlume di consapevolezza in questa sentenza: ossia che lequo compenso ha colmato quella deminutio della tutela dei professionisti a seguito dellabrogazione dei minimi tariffari.