La sanzione disciplinare contro l’avvocato dipendente part time del comune che mantiene l’iscrizione all’Albo è stata ritenuta legittima. Non è compito dell’ente locale dimostrare il pericolo concreto legato alla violazione dell’obbligo comportamentale poiché già implicito nella scelta legislativa. Sono queste le conclusioni raggiunte dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 31776/2023.
Il ricorso presentato dal Comune di Torino è stato accolto dalla Cassazione, ribaltando così la decisione della Corte d’Appello che aveva annullato la sanzione disciplinare di sospensione dal servizio e dalla retribuzione per dieci giorni. L’avvocato era stato sanzionato per aver violato il codice di comportamento dei dipendenti pubblici, mantenendo l’iscrizione all’Albo nonostante la scadenza prevista dalla legge 339/2003, contravvenendo al regime di incompatibilità assoluta tra pubblico impiego e pratica legale stabilito dall’art. 1 della stessa legge.
La Corte d’Appello aveva motivato la propria decisione sostenendo che il codice sulle autonomie locali punisce solo la violazione di obblighi comportamentali che causano “disservizio, danno o pericolo all'ente”, elementi non dimostrati o allegati dal Comune e rendendo la loro configurazione non automatica solo sulla base della violazione delle regole. Inoltre, il tribunale ha anche sostenuto l’impossibilità della ripetizione dei proventi ottenuti nell'esercizio della professione legale, poiché l'articolo 53, comma 6, del D.Lgs. n. 165/2001 esclude questa previsione per i dipendenti con contratti part-time che lavorano meno del 50% del tempo pieno.
La controversia è stata portata in Cassazione, dove l’ente locale ha contestato la decisione. Anche se il dipendente ha infranto il dovere di esclusività mantenendo l’iscrizione all’Ordine degli avvocati oltre il termine stabilito, la Corte d’Appello ha erroneamente ritenuto che ciò non costituisse un’illegalità senza la prova di un “specifico disservizio, danno o pericolo all'ente, agli utenti o ai terzi”. Questo aspetto non influisce sulla configurazione dell’illegalità ma solo sulla proporzionalità della sanzione.

In sostanza, la Corte ha considerato il disservizio come parte costitutiva dell’infrazione disciplinare, nonostante la situazione di incompatibilità assoluta. La Cassazione, nel sostenere il ricorso, ha affermato che l’incompatibilità è stata stabilita dal legislatore per evitare i rischi derivanti da possibili conflitti di interesse tra l’attività legale e il servizio pubblico. Si tratta di una regola basata su una valutazione legislativa, discrezionale ma non irragionevole, che sottolinea la maggior pericolosità intrinseca nell’unione tra pratica legale e impiego pubblico, senza necessità di dimostrare un pericolo concreto. Pertanto, la questione è stata rinviata alla Corte d’Appello per una nuova valutazione.