L’avvocatura chiede in maniera compatta al governo di rivedere le decisioni prese in materia di professione legale e lavoro pubblico. In una nota congiunta il Consiglio nazionale forense, l’Organismo congressuale forense e Cassa forense chiedono di riconsiderare la norma sul conferimento degli incarichi all’interno dalla PA ai professionisti, così come delineato dall’articolo 27 del decreto sull’attuazione del Pnrr. Il provvedimento è stato approvato dal Consiglio dei ministri il 27 ottobre scorso, ma non è stato ancora pubblicato in Gazzetta. Secondo il Cnf, l’Ocf e la Cassa forense, la norma andrebbe riformulata per tutelare gli avvocati dai rischi di conflitti di interesse tra libera professione e lavoro pubblico. Per questo motivo hanno scritto al ministro per la Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, informando pure la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, con «l’auspicio che il Governo disponga una riformulazione dell’articolo 27 del decreto legge, integrando, per il reclutamento di avvocati negli uffici della Pubblica amministrazione, una causa specifica di sospensione dall’esercizio professionale, istituto già conosciuto dall’ordinamento forense». «L’avvocatura Italiana – sottolineano Cnf, Ocf e Cassa forense - vede nella propria autonomia e indipendenza, oltre che un presupposto imprescindibile per lo svolgimento della funzione assegnatale dalla legge di ordinamento forense, un presidio di democrazia e legalità, fondamentale e costituzionalmente rilevante, in quanto costituiscono “indispensabili condizioni dell'effettività della difesa e della tutela dei diritti». I vertici dell’avvocatura esprimono preoccupazione e perplessità «sul piano applicativo e sistematico» dell’articolo 27 del decreto sul Pnrr, essendo in contrasto con il regime di incompatibilità previsto dalla legge professionale del 2012 e dal Codice deontologico forense. Tutto ciò, si evidenzia, «in funzione del richiamato rilievo costituzionale della professione forense, che non può essere esposta a rischi di conflitti d’interesse o condizionamenti alla sua indipendenza, nonché a forme di concorrenza sleale nell’ambito della categoria, tra avvocati salariati e non salariati che insistono sul libero mercato». La norma contestata presenta dei rischi di conflitti di interesse e condizionamenti per l’indipendenza e l’autonomia dell’avvocato. Con il pericolo che si creino delle forme di concorrenza sleale nell’ambito della professione legale. L’esempio che viene preso in considerazione riguarda l’avvocato assunto come operatore nell’Ufficio per il processo, chiamato a svolgere attività lavorativa a questo titolo in Tribunale con contestuale esercizio della professione forense. Una casistica del genere intaccherebbe la corretta amministrazione della giustizia. Cnf, Ocf e Cassa forense hanno esaminato la questione anche dal punto di vista previdenziale, ribadendo la necessità di non danneggiare la posizione contributiva degli avvocati. Sono tre i temi posti all’attenzione dei ministri Brunetta e Cartabia. Il primo riguarda la previsione del mantenimento dell’iscrizione alle Casse previdenziali di riferimento, che dovrebbe essere in via esclusiva e non come opzione alternativa all’iscrizione Inps per coloro che avessero intenzione di mantenere l’iscrizione all’albo. «Il sinallagma albo professionale/Cassa – scrivono Cnf, Ocf e Cassa forense - non può essere messo in discussione senza creare effetti a catena dannosi sia per i professionisti sia per le Casse professionali». Altro aspetto affrontato riguarda l’ipotesi di cancellazione dall’albo del professionista, con conseguente iscrizione all’Inps, che non può portare all’introduzione di «una forma, del tutto asistemica, di “ricongiunzione gratuita”». In questo caso le soluzioni possibili sono due: «O si pongono espressamente a carico dello Stato gli oneri della ricongiunzione, calcolati sulla base della legislazione vigente (Legge 45/1990), oppure si prevede la valorizzazione dei periodi contributivi maturati presso i diversi Enti previdenziali con gli ordinari strumenti, gratuiti, del “cumulo” e della “totalizzazione”, già presenti nell’ordinamento previdenziale sia dell’Inps sia delle Casse». Infine, l’avvocatura prende in considerazione il caso di coloro che mantengono l’iscrizione all’albo. Per questi professionisti «non è sufficiente prevedere il mantenimento dell’iscrizione alla Cassa ma occorre anche fissare il principio che, ai soli fini previdenziali, i compensi percepiti per lo svolgimento delle attività all’interno delle Pubbliche amministrazioni sono equiparati a reddito professionale e, quindi, soggetti a contribuzione presso le rispettive Casse». «Senza questa precisazione legislativa – concludono i vertici dell’avvocatura - si avrebbe il paradosso che il professionista resterebbe iscritto alla Cassa ma verserebbe i contributi solo sul reddito dichiarato come professionale e non su quello percepito come compenso da lavoro dipendente dalla PA. Ciò con evidenti danni alla posizione previdenziale del professionista, che si intenderebbe tutelare, e alla Cassa stessa, cui verrebbe meno il gettito contributivo».