Era inevitabile che una disciplina difficilmente compatibile col diritto di difesa sprigionasse alla prima occasione effetti incontrollabili. Ed è successo. È successo che il decreto del ministro della Giustizia numero 110 dello scorso 7 agosto – il famigerato provvedimento che introduce limiti dimensionali e regole per la redazione degli atti giudiziari (sarebbe meglio dire “per gli atti degli avvocati”, visto che di veri limiti per i magistrati il decreto non parla) – ha spinto un giudice di pace del Tribunale di Verona all’estremo, paradossale esito di far pagare le spese a chi ha vinto la causa. Sembra uno scherzo: e infatti sui più diffusi gruppi facebook dell’avvocatura, da “Politica forense” alle pagine dei maggiori Coa, le prime reazioni sono state del tipo “ma è vero o è una bischerata?”. Non ci si poteva credere. Ieri sera sono arrivate le “temute” conferme: è tutto vero. Il decreto emanato a inizio agosto (in una formulazione anche attenuata rispetto all’iniziale, dopo le rimostranze di Cnf, Ocf e di tutte le rappresentanze forensi) è effettivamente citato dal giudice scaligero. Come se non bastasse, a motivare la decisione non è neppure la violazione del numero di caratteri ma, udite udite, la “dimensione caratteri” e la “interlinea”. Il magistrato onorario della prima sezione civile di Verona da una parte ingiunge al soccombente di “pagare entro 40 giorni dalla data di notifica del presente provvedimento la somma di 8.540,00 euro oltre interessi di mora”. Dall’altra parte, poche righe dopo, sentenzia: “Spese legali comepnsate per violazione dei criteri di forma e redazione degli atti giudiziari ex art. 46 disp. att. cpc in riferimento agli articoli 6 e 8 Dm 110 del 07.08.2023”, fino alla parentesi fatale in cui si evoca la prescrizione oggetto della malefatta, “(dimensione caratteri e interliea)”. Appunto.
Si tratta non solo di una vicenda che ha dell’assurdo, ma innanzitutto di un errore materiale del giudice: l’articolo 6 del decreto di Nordio statuisce che “gli atti sono redatti mediante caratteri di tipo corrente”, e certo a nessuno verrebbe in mente di scrivere in lineare B, “preferibilmente” con “dimensione di 12 punti” e “interlinea di 1,5”. Sì, “preferibilmente”. Vuol dire che la norma non ha carattere perentorio. Disattenderla non può comportare sanzioni, come invece avvenuto a Verona.
A segnalare l’incredibile vicenda è, tra gli altri, il presidente dell’Unione nazionale Camere civili Antonio de Notaristefani, che ne scrive in una lettera al guardasigilli Nordio: «Confido che converrà con me che lasciare interamente a carico di chi ha ragione il costo di un procedimento per problemi di carattere ed interlinea non sembra giusto». Non a caso, al congresso Uncc di Cosenza è stata approvata una mozione in cui si chiede al ministro della Giustizia di «valutare l’opportunità di intervenire per evitare proprio quel che si è verificato oggi», ricorda de Notaristefani. Durissima, per esempio, la reazione dell’Ordine degli avvocati di Palermo, che in una nota osserva: «In queste ore circola sui social e sulle chat il provvedimento del GdP di Verona che ha compensato le spese di un procedimento per decreto ingiuntivo, perché il ricorso non era scritto ad interlinea 1,5 con carattere 12. È ovvio che il provvedimento è tecnicamente sbagliato per diverse ragioni», ricorda l’Ordine di Palermo, «non ultima il fatto che», come ricordato, «l’art. 6 del Dm 110/2023 prevede espressamente che l’interlinea 1.5 e la dimensione 12 del caratare sono utilizzati “preferibilmente”». Ma il Coa osserva giustamente come ad allarmare di più è che «abbiamo chiesto soldi all’Europa dicendo che una delle ragioni della lentezza dei processi è che gli avvocati scrivono troppo. Un’indecenza, anzi una vergogna, che ha consentito ad un giudice di adottare un provvedimento abnorme». Difficile sintetizzare in modo più efficace la distorsione che ha spinto il legislatore ad assecondare una così offensiva, per l’avvocatura, logica riformatrice.