In merito alla nostra inchiesta sui controesami interrotti indebitamente dai giudici, abbiamo raccolto il parere dell’avvocato Valerio Spigarelli, past president dell’Unione Camere penali, che ci dice: «La prima ragione delle degenerazioni è la cultura sulla prova che i giudici hanno ereditato dal codice inquisitorio. Questa cultura inquisitoria è sopravvissuta al mutamento del codice». Perciò «occorre modificare le norme, prevedendo delle sanzioni processuali in caso di violazione delle regole per l’esame testimoniale da parte di tutti, giudici compresi».

Avvocato, lei ha letto i nostri racconti degli ultimi giorni. Che idea si è fatto?

Abbiamo introdotto la tecnica dell’esame e del controesame con la riforma del 1989, per tradurre in pratica il metodo del contraddittorio nella formazione della prova. Lo abbiamo fatto riconoscendo che il contraddittorio è il modo migliore per arrivare alla verità. Purtroppo la prassi applicativa da subito ha prodotto una marea di degenerazioni, alcune delle quali sono state messe in evidenza nei vostri articoli. Il problema è che il contraddittorio vero, quello in azione, non è mai stato digerito dalla maggioranza dei magistrati italiani, in particolare dai giudici, anche in tema di esame testimoniale. Pensi che da un questionario somministrato a un campione di giudici, pm e avvocati, dall’Università di Torino nel 2004, quindi a 15 anni dall’entrata in vigore del nuovo codice, è emerso che oltre il 50 per cento dei giudici sentiva che il loro ruolo, rispetto al passato, per quanto concerneva l’esame testimoniale, “non si era modificato in modo significativo”, eppure le regole dal codice inquisitorio a quello accusatorio erano state rivoluzionate. Ma in effetti rispondevano il vero: regole nuove ma modi di comportarsi da codice inquisitorio. “Tutto cambia perché nulla cambi”.

In questo sistema che ruolo ha il giudice?

Non è un ruolo notarile: ha sempre la possibilità di intervenire per avere dei chiarimenti, ed è giusto perché è lui che decide. Però non deve essere un giudice bulimico, invadente, che non considera, per esempio, che le parti, pm e difensore, hanno una serie di informazioni preventive che lui non ha. Il giudice vede per la prima volta il testimone in aula e solo lì apprende la sua versione, deve essere recettivo, non protagonista. La prima ragione delle degenerazioni è la cultura sulla prova che i giudici hanno ereditato dal codice inquisitorio, in cui ricoprivano il ruolo di dominus. In quel sistema erano le parti a chiedere al giudice di poter porre una domanda che poi veniva rivolta al teste dal giudice stesso. Questa cultura inquisitoria sulla prova è sopravvissuta al mutamento del codice.

Il giudice si rende protagonista di indebite interferenze?

Spessissimo, checché ne dica Anm, anche perché la giurisprudenza ha sempre negato, in questi casi, che ci si trovi dinanzi a ipotesi di nullità o di inutilizzabilità. Si parla di mere irregolarità nella conduzione dell’esame che però non portano all’invalidazione dello stesso. E questo dipende dal fatto che il codice dell’89 non prevede specifiche sanzioni processuali in questi casi, tranne in rarissime ipotesi, quando, per esempio, il giudice impedisce a una delle parti di svolgere l’esame o il controesame.

Quindi l’avvocato è disarmato.

Tendenzialmente è l’apparato normativo che è imbelle dinanzi alle numerose prassi degenerative, ma anche l’avvocatura è troppo arrendevole di fronte alla disapplicazione delle regole in questo campo. A tal proposito, quando sento e leggo che non c’è dialogo tra avvocatura e magistratura sul tema, o che si fanno pochi convegni, ricordo già che nel lontano 2003 si dibatté, a Siracusa, presso l’Istituto Superiore Internazionale di Scienze criminali, proprio di “prassi degenerative dell’esame e controesame”. Ciò portò, nel 2008, alla nascita del La.p.e.c., Laboratorio permanente esame e controesame, su iniziativa di Ettore Randazzo. Un gruppo di lavoro, formato da avvocati, magistrati, professori, ormai presente in molti Tribunali italiani, che da allora organizza convegni in materia. Il La.p.e.c., nel marzo 2010, elaborò le Linee guida per l’esame incrociato nel giusto processo, dopo un ciclo di incontri durato anni, che coinvolse magistrati di altissimo livello come Canzio, Iacoviello, Fumu, Bricchetti, professori come Spangher e Amodio, avvocati cultori della materia come Antonio Forza e anche esperti di psicologia della testimonianza come il professor Sartori. Una sorta di vademecum virtuoso sull’esame dei testi.

Quali sono i punti principali di queste linee guida?

Primo: il rispetto della regola del codice che prescrive che lista testimoniale deve contenere l’indicazione specifica delle circostanze oggetto dell’esame. Questa è la prima regola vanificata dalla giurisprudenza: oggi nelle liste dei pm leggiamo ‘cito Tizio sui fatti di causa’, in maniera estremamente generica. Secondo: il giudice ha un suo momento per fare le domande, ossia dopo l’esame e il controesame, per investigare aspetti che le parti non hanno toccato. Oppure può intervenire per vietare domande non ammesse, ma non deve debordare e deve rispettare e far rispettare la turnazione nelle domande. Terzo: per il codice chi fa l’esame diretto non può fare domande che suggeriscono la risposta, lo può fare solo chi fa il controesame. Ma al contempo permette che la domanda vietata possa essere riformulata: ciò è sbagliato, perché ormai il suggerimento al teste è arrivato e va impedito. Infine la previsione più simbolica: il divieto per il giudice di utilizzare domande “che tendono a suggerire la risposta”.

Perché, che succede in pratica?

Incredibilmente la giurisprudenza permette domande suggestive da parte del giudice ritenendo che il divieto che il codice stabilisce per chi fa l’esame diretto sia posto per evitare i rischi di combine fra il testimone e chi lo introduce; e siccome il giudice non introduce testi, e per definizione non è sospetto di combine, per lui il divieto non vale. Ma la domanda suggestiva è un “suggerimento della risposta” che, se proviene dal giudice, perde la sua funzione di test sulla credibilità del testimone. Quando è il giudice che suggerisce le risposte il teste si adegua perché vede nel giudice l’autorità assoluta del processo, le combine non c’entrano nulla. Fortunatamente alcune sentenze hanno riconosciuto che il divieto di porre domande suggestive vale anche per il giudice.

Dai racconti che abbiamo fatto sembra che i giudici impediscano al difensore di stressare la prova ma poi lo facciano loro.

Esatto. Se il giudice è insoddisfatto, magari secondo il suo pregiudizio, di come sta andando la prova testimoniale, ad esempio il controesame della parte offesa, si inserisce indebitamente con domande suggestive. E quando l’avvocato fa presente che non può fare quel tipo di domande, l’80% dei giudicanti sgrana gli occhi: non solo non conoscono le Linee guida di La.p.e.c. e il dibattito che le ha prodotte ma neppure le sentenze che lo hanno riconosciuto. Soprattutto non conoscono le norme che già esistono. Le faccio un esempio. Secondo l’articolo 507 cpp il giudice può disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova. In questo caso l’articolo 151, comma 2, delle Disposizioni di attuazione stabilisce che dopo aver posto delle domande al teste il giudice indica “la parte che deve condurre l’esame diretto”. Quindi alla fine il giudice non può fare mai l’esame diretto, ovviamente, né, men che meno, il controesame. Siccome le domande suggestive le può fare solo chi conduce il controesame il giudice non le può fare.

Le linee guida vanno bene, la cultura condivisa avete tentato di crearla ma evidentemente tutto questo non è bastato. Le soluzioni dunque quali sono?

Considerato che la magistratura ha il codice accusatorio sulle labbra, ma quello inquisitorio nell’anima, bisogna muoversi in più direzioni per invertire la rotta. Occorre modificare le norme, prevedendo delle sanzioni processuali in caso di violazione delle regole per l’esame testimoniale da parte di tutti, giudici compresi. Soprattutto i giudici devono sentirsi terzi davvero: e non avverrà senza la condivisione del primato epistemologico del contraddittorio nella ricostruzione dei fatti. Paolo Ferrua scrisse: “Per chi ancora crede nel processo accusatorio, l’impegno, il punto da dibattere sarà allora questo: la ricerca della verità, avvertita dalla coscienza sociale come valore irrinunciabile, è agevolata e non ostacolata dal contraddittorio: non perché esso garantisca la genuinità della prova, ma perché è il miglior mezzo per verificarla, per scoprire se difetti”.

Ultima domanda: l’Anm di Roma ha criticato il nostro modo di condurre questa inchiesta sull’esame incrociato ma senza entrare nel merito. Guardare il dito e non la luna?

Da un lato è il solito riflesso di natura sindacale-corporativa dell’Anm, che però in questo caso si traduce un censorio ammonimento alla stampa a non raccontare comportamenti non corretti della magistratura, d’altro lato è la dimostrazione della perfetta ignoranza dei temi giuridici, e deontologici, che il tema coinvolge e di cui abbiamo parlato fin qui. Non conoscono il dibattito culturale sulla materia che è partito proprio dal riconoscimento che le prassi degenerative della cross-examination all’italiana si fondano su violazioni di legge e di canoni deontologici, compiute, soprattutto, dai giudici.