I diritti umani, in Iran, hanno il volto di una donna. E portano il nome di Nasrin Sotoudeh, avvocata che ha messo la sua sconfinata energia al servizio della difesa del suo popolo. «Per me, rimanere in silenzio di fronte all'ingiustizia non è un'opzione. In realtà, trovo più difficile sopportare le ingiustizie sociali che la prigione», raccontava in un’intervista poco tempo fa. Accusata di «propaganda sovversiva» e di «aver incoraggiato la corruzione e la dissolutezza» - ha difeso le donne che si sono rifiutate di portare il velo -, l’attivista è stata condannata nel 2018 a 148 frustate e 33 anni e mezzo di carcere, dei quali dovrà scontarne almeno 12. Un processo che si è svolto in sua assenza e contro il quale il Consiglio nazionale forense italiano ha alzato la voce, attirando l’attenzione del mondo sulla sistematica violazione dei diritti umani in Iran e sul sacrificio degli avvocati a tutela dei diritti. Già condannata nel 2011 a sei anni di reclusione per propaganda e attentato alla sicurezza dello Stato, l'attivista era stata rilasciata nel 2013 dopo uno sciopero della fame di 50 giorni, che ha suscitato indignazione in tutto il mondo. La sua azione a favore dei diritti umani è stata premiata nel 2012 dal Premio Sacharov, assegnato dal Parlamento Europeo. Ma la sua lotta per le donne arrestate tra dicembre 2017 e gennaio 2018 per essersi tolte il velo in pubblico, contraddicendo la legge in vigore dalla rivoluzione islamica del 1979, l’ha fatta finire di nuovo nelle maglie della “giustizia” e della spaventosa prigione di Evin, a Teheran, un buco nero dove la violazione dei diritti umani è all’ordine del giorno. È lì che vengono mandati giornalisti iraniani e stranieri, blogger, attivisti, studenti, registi, scrittori e chiunque abbia in qualche modo tentato di ribellarsi o anche solo criticare il regime degli Ayatollah. «Il settore della detenzione di sicurezza è indescrivibile - ha raccontato al Dubbio Reza Khandan, attivista e marito di Sotoudeh -. Lì non esiste la legge. Non c'è alcuna supervisione su ciò che accade. Anche al capo della prigione non è permesso entrare nei centri di detenzione di sicurezza. I prigionieri sono spesso tenuti in isolamento e talvolta torturati. Sono sottoposti a estenuanti interrogatori per settimane e spesso anche a gravi violenze fisiche e psicologiche. È in questi centri di detenzione che i detenuti sono costretti a fare false confessioni a causa della tortura e la televisione di Stato, che è l'unica emittente televisiva del Paese, trasmette queste confessioni ancor prima che una persona sia processata e condannata. Quindi, sulla base di queste confessioni, il Tribunale rivoluzionario può condannare i detenuti a decine di anni di prigione o addirittura alla pena di morte». Nonostante Nasrin Sotoudeh avesse 20 giorni di tempo per presentare ricorso contro il verdetto di primo grado, rinunciò a questo diritto come atto di protesta nei confronti di un procedimento irregolare e persecutorio. «La gran parte delle accuse contro di me sono politiche - ha raccontato Sotoudeh a Carmen Lasorella, in un’intervista esclusiva andata in onda su La7 -. Sono stata inquisita per essermi opposta alla pena di morte e sono anche all’interno dell’associazione dei difensori dei diritti umani. Ho difeso imputati politici e civili, imputati di minacciare la sicurezza del Paese. Ci sono tante altre accuse infondate. Una è stata quella di aver difeso le ragazze della via della Rivoluzione a Teheran, che erano salite su dei cubi di cemento in segno di protesta togliendosi il velo, l'hijab, e agitandolo per aria. Mi hanno condannato alla pena più pesante: 33 anni e mezzo di carcere e 148 frustate. Io ho deciso di non contestare pubblicamente questa sentenza ingiusta e illegale e a due anni di distanze mi hanno ridotto la pena a 27 anni. Ho fatto quello che ho fatto, come avvocato, perché era giusto farlo. Non potevo non difendere le ragazze della via della Rivoluzione, ignorandole sofferenze che avevano subito e i rischi che avevano affrontate. Se ripenso a quei giorni sono felice: ho avuto l’opportunità di combattere. Quando mi hanno portata in prigione, nessuna delle mie clienti era in carcere: loro erano libere». La vicenda suscitò sin da subito l’indignazione internazionale, portando ad una moltiplicazione degli appelli per la sua liberazione. A schierarsi al suo fianco, oltre all’avvocatura istituzionale italiana, furono anche diversi capi di Stato, tra i quali Emmanuel Macron, che il 10 aprile 2019, in un colloquio telefonico con il suo omologo iraniano Hassan Rohuani, sollevò il caso chiedendo la scarcerazione di Sotoudeh. Lo stesso fece il Parlamento europeo, senza però ottenere il risultato sperato. Nasrin è infatti rimasta in carcere, da dove ha continuato a condurre la propria battaglia di libertà. Con lo sciopero della fame e denunciando, nei momenti in cui le veniva concesso di uscire dal carcere per motivi di salute, la corruzione del sistema giudiziario iraniano. Nel settembre del 2020 fu costretta a interrompere un digiuno di protesta iniziato quasi 50 giorni prima per denunciare le condizioni dei prigionieri politici durante l’epidemia di coronavirus. Una prova fisica che la costrinse ad un ricovero di cinque giorni in ospedale, a causa di un’insufficienza cardiaca. Ma dopo il ricovero si riaprirono di nuovo le porte del carcere, questa volta a Qarchak, a 25 miglia a sud est della capitale iraniana, dove è stata rinchiusa in una struttura per sole donne in una fabbrica di polli inutilizzata e nota per i maltrattamenti sui prigionieri politici e le cattive condizioni igieniche, con letti a castello e l’impossibilità di sedersi: lì dentro si può stare solo distese, «una forma di tortura», ha chiarito Sotoudeh. A novembre, in occasione dell'8° Congresso mondiale contro la pena di morte, Sotoudeh è stata insignita del Premio Robert-Badinter. Pochi giorni prima, l'attivista aveva inviato una lettera ai 1.500 delegati provenienti da 128 paesi diversi. «Io, Nasrin Sotoudeh, avvocato e prigioniera politica in Iran, chiedo al mondo intero e a questo congresso di essere gli occhi e le orecchie degli iraniani in questi giorni difficili», aveva scritto allora, lanciando un appello per l’abolizione della pena di morte nel suo Paese. Nella sua intervista, realizzata nei giorni in cui si trovava fuori dal carcere per via delle sue condizioni di salute, Lasorella ha ricordato anche l’impegno del Cnf a difesa dell’avvocata. Una donna fragile, nel fisico, ma «d’acciaio» nello spirito e nella sua lotta con il regime. «Penso che questa volta - ha detto l’attivista - il popolo iraniano vincerà».