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«Per noi, la rivoluzione è il potere di costruire relazioni di amicizia con un altro essere umano, un altro essere vivente, un albero, il sole, la natura e l'universo. La capacità di costruire un’amicizia basata sull’uguaglianza e la libertà, superando consapevolmente tutte le frontiere materiali: questa è la rivoluzione». Recita così un passo del libro “Jin Jiyan Azadi. La rivoluzione delle donne in Kurdistan”, curato dall’Istituto Andrea Wolf (2022, Tamu editore), con cui la presidente Maria Masi ha introdotto i due eventi che hanno avuto luogo oggi in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. L’uno dedicato a un corso di alta formazione per gli avvocati, di cui diamo conto in un altro servizio del Dubbio, l’altro dedicato alla resistenza delle donne curde. Due iniziative apparentemente distanti, ma legate da un filo invisibile: la consapevolezza che la violenza può avere luogo ovunque, e che è nostro dovere, in Europa, guardare oltre i nostri confini per denunciarla e contrastarla. Ma anche per riconoscerla, ispirandosi agli esempi positivi di resistenza ed emancipazione femminile. Come quelli raccolti in questo libro attraverso le voci e le memorie di venti combattenti curde: arrivano da lontano, ma raccontano una forma di rivoluzione culturale che potremmo e dovremmo importare ovunque. «Conoscersi per emanciparsi. E per resistere. La rivoluzione non è solo difesa, ma anche azione, un’azione volta a cambiare il sistema»: ecco la chiave di lettura illustrata da Masi, con riferimento all’esperienza delle donne curde in contesti segnati da repressione e violenza. «Il Cnf, attraverso le commissioni pari opportunità e diritti umani - spiega Masi- ha sempre ritenuto di dover ampliare lo sguardo dell’avvocatura con un approccio costruttivo, accendendo i riflettori sulla condizione delle donne nel mondo, dall’Iran alla Turchia». E traendo dalle loro esperienze concetti e principi attuali, che valgono anche per noi. Si parla di consapevolezza, libertà, indipendenza. Tutti temi che intrecciano anche la vicenda del popolo curdo, di cui si parla questo pomeriggio dopo la proiezione del documentario “Kurdbûn – Essere curdo”, diretto dal regista, sceneggiatore e scrittore curdo-iraniano Fariborz Kamkari. All’evento presso il Teatro Manzoni di Roma ha preso parte, tra gli altri, anche il consigliere del Cnf Francesco Caia, coordinatore della commissione diritti umani del Cnf e vicepresidente dell’Oiad, che ha parlato dall’attività di monitoraggio dell’Osservatorio internazionale degli avvocati in pericolo nei processi farsa che hanno luogo in Turchia a carico di avvocati, giornalisti e oppositori politici. Da Ebru Timtik, l’avvocata curda morta nelle prigioni di Erdogan dopo 238 giorni di sciopero della fame, all’avvocato Tahir Elç, assassinato nel 2015 dalle forze di polizia. Tutte vicende legato a doppio filo a quella narrata nel documentario, che racconta - attraverso la drammatica esperienza della giornalista curda Berfin Kar - i settantanove giorni di assedio da parte dei carri armati turchi a Cizre, città curda nel sudest della Turchia al confine con la Siria e l’Iraq, tra il 2016 e il 2017. Kamkari ha ricostruito la drammatica esperienza di Berfin Kar, che insieme al suo cameraman è rimasta bloccata nella città durante tutto il periodo dei bombardamenti, documentando giorno dopo giorno la violazione dei diritti umani perpetrate dall’esercito turco contro donne, anziani e bambini, ma anche il coraggio degli abitanti nel trovare forme di sopravvivenza e resistenza. Berfin Kar - simbolo del coraggio della libertà di stampa - oggi si trova in Turchia in attesa di essere processata. Dopo la fuga da Cizre si era rifugiata in Europa con gli hard disk contenenti le riprese di quei giorni e tramite un network di filmmaker curdi è riuscita a contattare il regista Kamkari a cui ha proposto di visionare il girato. «Vedere la resistenza di un popolo che accetta la morte ma non si inchina - ha spiegato il regista - riempie il cuore di ogni spettatore di dolore e nello stesso tempo di orgoglio. Il viso dei bambini, il pianto dei padri sui cadaveri dei figli adolescenti uccisi dai cecchini e i volti orgogliosi delle donne, che sono state la spina dorsale della resistenza di Cizre, pronte a morire, ma non ad accettare l’ingiustizia. Questa è l’esperienza mia e di ogni curdo delle quattro zone del Kurdistan. Allora ho deciso di partire dal documento per denunciare un incredibile crimine contro l’umanità e per ricostruire un pezzo della memoria collettiva di un popolo ancora oggi diviso e perseguitato».