L’inaugurazione dell’anno giudiziario è occasione di bilanci e di valutazione, non solo della produttività ma anche dell’effettività della giustizia, nella sua funzione essenziale, quella a tutela dei cittadini. Ebbene, il bilancio e la sua valutazione, purtroppo, non possono essere positivi, e quel che più preoccupa è la prospettiva del nuovo anno giudiziario che oggi inauguriamo.
L’Europa che per la prima volta sta finanziando, con ingenti risorse, il nostro Paese, ci ha chiesto e ci chiede una giustizia efficace ed efficiente. In nome dell’efficacia e dell’efficienza, elementi indefettibili per un processo celere ma giusto, abbiamo sacrificato garanzie e ora anche la certezza del diritto applicabile, a scapito, naturalmente, della tutela delle persone.
Il difficile coordinamento delle disposizioni contenute nella legge di Bilancio e nel decreto Milleproroghe, l’anticipazione di molte, troppe norme relative, nello specifico, al processo di primo grado e a quello di persone, famiglia e minori, in una alla delicata questione dei termini processuali, alla loro natura, rende il quadro attuale frammentario, incerto, incompatibile con le esigenze di garanzia e certezza, necessarie anche e soprattutto in questa fase di prima applicazione.
L’Avvocatura non ha perso occasione per rappresentare le molteplici perplessità di merito e di metodo, né si è sottratta al senso del dovere e volere dare un contributo utile alla discussione sulle riforme, con proposte alternative, progetti studiati con il conforto della visione e della prospettiva di chi i tribunali, le sedi giudiziarie, li frequenta e li vive. Anche se oggi, e non più a causa dell’emergenza sanitaria, gli avvocati e quindi i cittadini, cui questa cerimonia è rivolta, poiché la giustizia è amministrata in nome del popolo italiano, sono fuori dai tribunali e dalle sedi di giustizia, e non solo fisicamente. Sono, siamo fuori perché i nuovi processi ci vedono ai margini di un sistema strutturalmente inadeguato, compresso in formalismi che rischiano di far prevalere lo sbarramento alla domanda di giustizia, la statistica sul diritto-dovere di difesa. È avvilente dover essere costretti a comprimere il diritto di essere difesi in griglie di valutazioni, schemi, atti, breviari. Quanto spazio concediamo a una donna che voleva porre fine a una storia di dolore e che invece ha subito la fine della propria vita? A donne e uomini privati del lavoro e della dignità, quante righe, con buona pace dell’oralità, autorizziamo? Come intendiamo arginare, nel processo penale, gli insidiosi spazi interpretativi delle norme?
I filtri dovrebbero essere “magici”. Allora sì che potrebbe funzionare, ma non così. La giustizia continuerà a non funzionare bene se, in attesa della annunciata separazione delle carriere, si continuerà ad alimentare la separazione tra loro degli operatori di giustizia: giudici e avvocati oramai distanti, lontani; avvocati e cancellieri separati al punto che un secondo accesso alle cancellerie potrebbe essere segnalato come molesto; separazione tra giudici, avvocati e le stesse parti, che poi sono i cittadini, in soccorso dei quali resta, oramai, solo la filosofia.
La filosofia, a differenza della giustizia, non è riservata ad una ristretta aristocrazia del pensiero. La filosofia è per tutti, sostiene convinto il filosofo Aldo Masullo.
La giustizia evidentemente no, sostiene con profondo rammarico l’Avvocatura.
Rammarico di non essere stati considerati, di non essere stati ascoltati nella giusta, necessaria misura, in occasione di scelte, sicuramente difficili, rivelatesi poi non sempre e non tanto felici; rammarico di non essere riusciti a convincere che si poteva fare anche meno, ma si doveva fare meglio e insieme.
La digitalizzazione, ad esempio, è una scommessa su cui ha puntato anche l’Avvocatura, facendosi carico della formazione, della sperimentazione dei protocolli, nel civile dalla prima ora e nel penale poi, e soprattutto dei rischi, a suo esclusivo carico. Oggi rappresenta premessa e fine dell’azione forse più importante per l’attuazione del Pnrr in tema di giustizia e delle riforme stesse. Difficile, allora, comprendere la scelta operata, con la legge di Bilancio, di ridurre i fondi e ridimensionare i due programmi, per il civile e per il penale, destinati alla digitalizzazione e agli uffici giudiziari.
E allora, quale, quali rimedi? Nel civile un rimedio immediato è ripristinare l’originaria entrata in vigore, almeno, di quelle norme che rischiano di peggiorare sensibilmente le condizioni già precarie del sistema, anche dal punto di vista logistico e strumentale, e intanto, mettere mano ai correttivi, necessari, per evitare il fallimento delle riforme. Contestualmente intervenire sugli aspetti organizzativi per eliminare quelle che sono state definite “le crepe che non si vedono”, crepe che minacciano però il crollo dell’edificio e dell’intero sistema. Non è concepibile che a risorse invariate, non solo nei numeri ma anche nella qualità, si possano attuare le riforme approvate. E allora si cominci a realizzare quello che, seppur in maniera embrionale, la riforma dell’ordinamento giudiziario ha previsto come opportuno, ovvero lo stabile e funzionale coinvolgimento dell’Avvocatura nell’organizzazione delle attività degli uffici giudiziari e quello che il Ministro Nordio ha più volte richiamato come necessario, ovvero il coinvolgimento effettivo di magistratura e avvocatura nella discussione e nell’elaborazione delle riforme.
Del resto, l’Avvocatura oggi garantisce il funzionamento e la tenuta della funzione essenziale, mettendo a disposizione tempo, qualità, competenza, come giudici onorari, difensori d’ufficio, difensori disponibili ad assumere il patrocinio a spese dello Stato. Prestatori d’opera intellettuale e non solo, senza neppure la garanzia del compenso in tempi ragionevoli.
E se poi, invece della predittività, estranea culturalmente e concettualmente al nostro ordinamento, ma soprattutto al nostro essere giuristi ed umanisti, ci concentrassimo su quel bisogno, tutt’altro che effimero, di prossimità, per recuperare non tanto e non solo la distanza fisica dai cittadini ma quella più importante, che narra l’esigenza di vedere, di sentire, di percepire la giustizia come dovrebbe essere, ovvero strumento, mezzo, fine, funzione?
Forse, riusciremmo anche a porre rimedio agli effetti devastanti, soprattutto in alcuni territori, di avventati interventi di geografia giudiziaria. Le immagini dei tribunali vuoti, deserti, oltre a suscitare nostalgia, a provocare tristezza, alimentano nella gente “straordinariamente” comune, la percezione di assenza della Giustizia. Non la si percepisce, infatti, nelle carceri, dove qualità e dimensione degli spazi della pena violano, quotidianamente, la dignità delle persone detenute. Assente o comunque latente avvertiamo oggi anche il senso di appartenenza alla comunità della Giurisdizione, pur avendoci creduto, e pur credendo ancora alla necessità di una cultura comune della giurisdizione, affinché possa essere veramente indipendente, come parimenti libere, indipendenti e credibili devono essere magistratura e avvocatura.
Molta strada insieme è stata fatta da magistrati e avvocati, e ora è tempo di convincersi che non ci sono alternative ad un percorso che sia in direzione né ostile né contraria, ma che possa condurci, con pari dignità, a realizzarla nell’esclusivo interesse dei cittadini tutti.