Solo due mesi ci separano dal Congresso di Firenze che dovrà eleggere il successore di Gian Domenico Caiazza alla presidenza dell’Unione delle Camere Penali Italiane, ma il dibattito sui temi della giustizia penale è di fatto bloccato dalla situazione di incertezza che avvolge i candidati e i relativi programmi.

Nel protrarsi dell’attesa, è comunque possibile delineare, almeno per grandi linee, le sfide cruciali che si presenteranno ai penalisti italiani nel prossimo biennio. Dopo aver tentato di arginare le derive giustizialiste, populiste ed emergenziali, finalmente si intravede una stagione di proposte rivolte alla piena attuazione delle regole del giusto processo e del diritto penale liberale.

La madre di tutte le riforme rimane, da sempre, la separazione delle carriere (o meglio, degli ordinamenti) fra giudice e pubblico ministero. Dal 1999, ossia da quando l’art. 111 Cost. impone la terzietà del giudice, è costituzionalmente dovuta una modifica ordinamentale che ponga l’organo giurisdizionale nella condizione di netto distacco dalle parti. Il senso della terzietà è proprio questo: il giudice va collocato dalla legge di ordinamento giudiziario in una posizione di equidistanza dalle parti, confinato al vertice del triangolo equilatero che rappresenta geometricamente la struttura del giusto processo.

Basterebbe questo argomento, l’obbligo costituzionalmente imposto, per giustificare una riforma che finora non è mai stata seriamente coltivata dal Parlamento, a dispetto dell’ampio consenso che invece riscuote nell’opinione pubblica, dimostrato tanto dal referendum, sia pure fallito per il mancato raggiungimento del quorum, quanto dalla raccolta delle firme organizzata da UCPI per una legge di iniziativa popolare.

Del resto, è un concetto elementare e intuitivo che il giudice non possa decidere sulla fondatezza dell’accusa formulata da un suo collega magistrato appartenente al medesimo ordine giudiziario.

Nel mutato clima politico si è aperto un concreto spiraglio per attuare questa idea di civiltà imposta dalla Costituzione, in tal senso si sono espressi il Ministro Nordio e la maggioranza di Governo, sollevando la dura reazione corporativa di ANM.

La storia insegna che, al di là dei proclami, il percorso parlamentare sarà accidentato e il risultato per nulla scontato. Mentre si torna a discutere della separazione delle carriere, la riforma Cartabia ha segnato una netta regressione sul terreno della separazione delle funzioni, che è un prius logico della separazione delle carriere, senza, peraltro, che tale scelta in controtendenza abbia suscitato lo sdegno che avrebbe meritato.

Nel disegno del processo efficientista, il giudice collabora attivamente alla costruzione dell’accusa, indicando al pubblico ministero «le necessarie modificazioni» dell’imputazione (artt. 423 commi 1-bis e 554-bis comma 6 c.p.p.). La Cartabia ha così reintrodotto, senza colpo ferire, la malfamata figura del giudice-accusatore, abrogando la separazione delle funzioni che stava alla base del processo accusatorio.

Come ha recentemente notato Paolo Ferrua, c’è un’evidente osmosi fra il piano processuale e quello ordinamentale ed è proprio l’impianto della riforma Cartabia a porsi in contrasto con l’idea stessa della separazione delle carriere. Nel processo neo-inquisitorio, consegnatoci dal PNRR, le indagini preliminari sono state appesantite, formalizzate, cosparse di finestre di giurisdizione al punto da mostrare sempre più il volto di una rinnovata istruzione formale, lastricata da sub-procedimenti fondati su distinzioni oziose e perlopiù indecifrabili.

Lo spostamento dell’asse del processo sulla fase delle indagini, la pervasiva presenza del giudice nel momento investigativo, la perdurante assenza della difesa, la fuga incentivata dal dibattimento ci restituiscono un’idea di processo quanto mai lontana dal modello accusatorio che implica la separazione delle carriere.

Anche per questa ragione, in cima all’agenda del nuovo Presidente dovrebbe esserci la ferma opposizione alle sciagurate derive imposte dalla riforma ‘Cartabia’, verso le quali si è mostrata finora eccessiva indulgenza, forse dettata dalla mancata comprensione del disegno complessivo. Ma la riforma Cartabia va superata (abrogata o comunque profondamente riformata) per tutte quelle valide ragioni che si scoprono ogni giorno grazie alla sua applicazione concreta.

Su questo terreno si misurerà lo spirito liberale che, almeno nelle intenzioni, ha mostrato il Ministro Nordio. Non si può predicare il garantismo senza muovere un dito per rimediare ai guasti del processo efficientista. E’ indifferibile una radicale “riforma della riforma” ispirata, questa volta, all’efficienza delle garanzie e alla semplificazione di un rito penale oggi completamente fuori controllo, come ha dimostrato la grottesca vicenda del portale telematico. Anche il futurismo tecnologico va asservito alle garanzie, è necessario riaffermare con forza che la procedura penale, tutte le regole del processo, sono regole di garanzia, sono limiti all’agire dell’autorità procedente e non devono mai trasformarsi in oneri e limitazioni per la difesa. Questa è la grammatica elementare della procedura penale messa in ombra da una riforma di enorme impatto culturale e ideologico, prima che puramente normativo.

Una volta ristabilita la funzione del processo, depurato dalle scorie dell’efficientismo aziendalista imposto dal baratto con i fondi europei, si potrà pensare seriamente ai temi della libertà personale e delle intercettazioni posti dal DDL Nordio.

La proposta dei penalisti deve essere radicale.

La libertà personale di un presunto innocente non può essere limitata, se non in casi eccezionali. Per regola, la massima restrizione possibile devono diventare gli arresti domiciliari, confinando la custodia in carcere ai soli casi in cui l’imputato abbia dimostrato, con il suo comportamento, il concreto e attuale pericolo di violenze. L’interrogatorio di garanzia anticipato è un’arma a doppio taglio: non possiamo dimenticare i drammatici interrogatori “in transito” di “Mani pulite”, con buona pace del diritto al silenzio.

Per arginare l’abuso delle intercettazioni e le conseguenti ricadute mediatiche, l’unica strada percorribile è quella svilirne la portata probatoria. A tal fine, si può stabilire che i dialoghi ascoltati non siano prove autosufficienti, ma pongano semplicemente un tema di prova che dovrà poi essere dimostrato sulla base di altri elementi. La modifica normativa non potrà certo risolvere la questione della gogna mediatica se non si accompagnerà a un cambiamento culturale. Non basta continuare a denunciare le degenerazioni e intervenire settorialmente, occorre definire poche regole chiare e puntare sul senso di responsabilità di tutti, rafforzato da sanzioni effettive in presenza di violazioni. E non parlo solo dei giornalisti, il problema è soprattutto, a monte, in chi scrive le motivazioni dei provvedimenti cautelari o distribuisce “sotto banco” gli atti processuali, alimentando le distorsioni mediatiche. La questione delle intercettazioni diventa drammatica con riferimento alla violazione delle garanzie di libertà del difensore. La tecnologica consente di escludere in radice l’ascolto dei dialoghi fra avvocato e assistito, sul punto non vi sono mediazioni possibili, la scelta non può che essere quella di un divieto assoluto di intercettazione, essendo del tutto insufficiente l’inutilizzabilità postuma, una volta violata la sacralità del segreto professionale. Tutti i mezzi tecnologici di ricerca della prova andranno ripensati sulla base di una visione evoluta dei diritti fondamentali, a partire dalla protezione del domicilio digitale.

La politica dei penalisti deve poi finalmente liberarsi dai tabù.

Il doppio binario processuale per i fatti di mafia è contrario all’art. 27 comma 2 Cost., così come lo sono gli altri moduli processuali differenziati in ragione della natura del reato ipotizzato dal pubblico ministero. La Costituzione non gradua le garanzie processuali in funzione della gravità degli addebiti, essere presunti innocenti per una accusa di mafia o per un reato “comune” è esattamente la stessa cosa, il diritto al giusto processo è assoluto e generalizzato.

Se proprio si volessero differenziare le regole processuali, bisognerebbe aumentare le garanzie con il crescere del rischio penale, non il contrario. Va superata la logica incostituzionale del processo come strumento di lotta alla criminalità o di difesa sociale. Ferri, Garofalo, Carrara ci hanno insegnato che il codice di procedura penale è la legge che tutela i galantuomini, i presunti innocenti. L’imputato pericoloso è la negazione del giusto processo.

Il processo, infine, deve potersi svolgere in una cornice temporale tale da garantire l’effettività dei diritti e la funzione rieducativa della pena eventualmente inflitta all’esito del compiuto accertamento di responsabilità. Che sia la prescrizione, l’improcedibilità o qualunque altro istituto di nuovo conio, quello che conta è il risultato: gli standard minimi europei non tollerano processi che durino più di otto anni e mezzo nei casi complessi, dobbiamo trovare il modo di allinearci a questa soglia cronologica e garantire che oltre quel limite temporale lo Stato abbandoni la pretesa punitiva

Il sistema delle misure di prevenzione si è progressivamente trasformato, perdendo i suoi originari connotati che ne giustificavano l’esistenza. Dalle misure ante o praeter delictum, siamo passati a quelle post delictum che rappresentano un succedaneo deformalizzato dell’intervento repressivo penale. Così come è oggi, il sistema di prevenzione si pone palesemente in contrasto con la Costituzione e con la presunzione d’innocenza: non si può punire, soprattutto con la pena patrimoniale, senza prima accertare la responsabilità mediante le regole del giusto processo.

Anche sul versante del diritto penale sostanziale sono necessarie riforme che riportino il sistema in una cornice costituzionale di razionalità e proporzionalità. Non bastano le timide pene sostitutive della riforma Cartabia o gli sporadici interventi della Corte costituzionale, bisogna intervenire con determinazione sulla legislazione emotiva che nel corso degli anni, per soddisfare l’allarme sociale vero o presunto, ha portato con sé eccessi punitivi ben oltre il minimo sacrificio necessario.

Sono passati ormai dieci anni dalla sentenza Torreggiani, ma l’emergenza del sovraffollamento carcerario è rimasta tale, nel crescente disinteresse della politica e dell’opinione pubblica. Al di là dei provvedimenti “emergenziali”, dovremmo avere il coraggio di scelte di civiltà: dal carcere devono uscire immediatamente gli imputati in attesa di giudizio, nel rispetto della presunzione di innocenza e di una applicazione limitatissima della custodia cautelare nei soli casi di pericolo legato a comportamenti violenti, comunque da eseguirsi in strutture differenziate rispetto agli istituti di pena. I tempi per ripensare l’essenza stessa della pena non saranno brevi, nel frattempo si può migliorare la situazione con riforme che diano un senso ai principi costituzionali.

Chiudo con l’Europa dalla quale arrivano sempre più spesso le minacce più gravi per un sistema penale liberale. Basti pensare alla recentissima proposta di direttiva sulla corruzione che prevede innalzamenti draconiani delle pene e dei termini di prescrizione. Anche grazie all’audizione della Vice-Presidente Paola Rubini, pochi giorni fa la Commissione per le Politiche Ue della Camera ha votato contro la proposta di direttiva. Si tratta di un risultato importante, passato però sotto silenzio, che ci fa capire come UCPI possa incidere positivamente sulle scelte parlamentari.

Caro Presidente, questi sono solo alcuni dei temi che spero comporranno la tua agenda, ai quali aggiungerei anche la sfida dell’intelligenza artificiale che, prima di quanto si possa immaginare, metterà in discussione la stessa sopravvivenza delle professioni liberali e della giurisdizione umana. Senza guardare troppo al futuro, già oggi non c’è in gioco solo il giusto processo, la terzietà del giudice, la giusta pena, nel biennio del tuo mandato, di prevedibili intemperie politico-giudiziarie, la partita sarà decisiva anche per l’esistenza, il ruolo e la dignità dell’avvocato penalista.

*Avvocato penalista, Professore ordinario di Procedura penale Università Milano Bicocca