La prima condanna nel 1995 perché aveva osato scrivere la parola «Kurdistan» in un articolo di giornale: sei mesi di reclusione in quanto avrebbe «denigrato» lo Stato turco; l’allora ordine degli avvocati legato a doppio filo al governo le ritirò la licenza professionale. L’ultima condanna nel 2021, sei anni di prigione per “fiancheggiamento e associazione terroristica” per aver difeso dei membri del Pkk.

Per il regime autocratico del “sultano” Erdogan, una donna come l’avvocata Eren Keskin è un simbolo da combattere e da abbattere; in prima linea per i diritti delle minoranze curde e per la difesa delle donne vittime di abusi sessuali da parte della polizia, per le libertà civili e delle comunità Lgbtq, ha sempre sostenuto che il massacro degli armeni durante la Prima guerra mondiale fu un autentico «genocidio» compiuto volontariamente dalla Turchia, qualcosa di indicibile oltre il Bosforo perché l’essenza stessa della nazione moderna nasce da quella rimozione collettiva poi mutata in un vero e proprio negazionismo di Stato.

Keskin accusa il governo di reprimere la libertà di pensiero e il diritto a esprimere pubblicamente il dissenso politico e per questo da decenni subisce una persecuzione giudiziari quasi senza pari: almeno 143 i procedimenti a suo carico in oltre trent’anni di professione e di militanza attiva nel campo dei diritti.

E tanto fango da parte dei media governativi che non perdono occasione per diffamarla se non addirittura minacciarla fisicamente come quel conduttore televisivo che una volta si è augurato che venisse stuprata invitando «i veri patrioti» a farlo. Nessuna di queste intimidazioni e violenze ha però mai scalfito la sua determinazione: «Mi hanno insultata, minacciata, aggredita fisicamente, sbattuta in una cella per le mie opinioni, ma io non mi faccio intimidire e rimango qui in Turchia a lottare, solo la democrazia, lo Stato di diritto e l’uguaglianza possono salvarci, la battaglia per i diritti umani è il mio modo di vivere e lo sarà fino a che sarò viva».

Nel 2002 è stata accusata dalla magistratura di «aiutare e favorire il terrorismo» perché si era detta favorevole al fatto che i curdi potessero utilizzare la propria lingua madre anche nelle scuole.

Nel marzo 2006 un tribunale l'ha condannata a dieci mesi di reclusione per aver insultato l'esercito del paese: aveva riferito di abusi e violenze subiti dai prigionieri e soprattutto le prigioniere all’interno delle carceri. La sentenza fu poi convertita in una multa di 6.000 lire turche che Keskin si rifiutò di pagare entrando in sciopero della fame.

Laureata in giurisprudenza, Keskin è anche una giornalista molto seguita: dal 2013 al 2016 ha diretto la redazione del quotidiano Özgür Gündem pubblicando articoli molto duri nei confronti di Erdogan e del suo circolo di potere, denunciando sia la repressione di universitari, intellettuali e avvocati che la corruzione del governo e del cerchio magico del presidente incapaci di traghettare la Turchia fuori dalla crisi economica. Uno stato di polizia che utilizza lo spionaggio e l’intelligence come armi letali per schiacciare ogni possibile opposizione con tanto di rapimenti e sparizioni, quei «metodi sporchi» che risalgono agli anni 80-90 quando al potere c’erano i militari e che Erdogan ha fatto suoi con estrema naturalezza.

Per la sua attività giornalistica è stata condannata complessivamente a 7 anni e 6 mesi, mentre il quotidiano è stato chiuso quello stesso anno dalle autorità di Ankara che hanno arrestato tutti i lavoratori condannando poi il caporedattore Zana Kaya a due anni per «propaganda sovversiva». Il giro di vite del regime si è manifestato dopo il presunto tentato colpo di Stato del luglio 2016 al quale Erdogan ha reagito con decine di migliaia di arresti in tutti i settori della vita pubblica, dalle forze armate alle università, con l’odiosa assimilazione degli avvocati a loro clienti.

Nel marzo 2018 un’altra condanna: 5 anni e 3 mesi di reclusione per oltraggio al presidente e ad altri 2 anni e 3 mesi per “offesa alle istituzioni e agli organi dello Stato” ai sensi dell'articolo 301 del codice penale turco. Un calvario a cui l’avvocata più perseguitata della Turchia è abituata. Non solo l’Organizzazione internazionale degli avvocati in pericolo (Oiad) ma anche Amnesty international denuncia da tempo l’accanimento giudiziario e il pregiudizio politico con cui il regime vuole metttere a tacere la sua voce, definendola «una prigioniera di coscienza».

Eren Keskin è nata nel 1959 da una famiglia di origine curda di Bursa, quinta città del Paese con circa tre milioni di abitanti. Dopo la laurea in legge all’Università di Istanbul agli esordi della sua carriera di avvocata, nel 1984, Keskin è stata membro dell’Associazione per i diritti umani (IHD – İnsan Hakları Derneği), la prima organizzazione non governativa fondata dopo il colpo di stato militare del 1980, che negli anni è diventata un faro per la difesa delle libertà politiche e civili.

Per diversi anni è stata a capo della filiale di Istanbul dell’Associazione. Keskin è anche tra i membri fondatori Fondazione per i diritti umani della Turchia (HRFT) che si occupa della riabilitazione e del trattamento dei sopravvissuti alla tortura nelle prigioni.

È anche tra gli animatori di THIV (Turkey Human Rights Association), una ong fondata nel 1990 e della TOHAV (Fondazione per la società e gli studi legali), creata nel 1994 allo scopo di monitorare e sostenere le garanzie della difesa nei procedimenti penali e il diritto al giusto processo calpestato senza vergogna dalla magistratura di regime.

Una delle iniziative a cui Keskin ha dedicato più tempo e impegno riguarda l’assistenza legale alle donne vittime di abusi sessuali durante la detenzione, una pratica che ha visto con i propri occhi durante il suo primo passaggio in carcere e che è moneta corrente quando si tratta di prigioniere politiche.