«Per prima cosa uccidiamo tutti gli avvocati: lo dicono dei rivoltosi che nell’Enrico VI di Shakespeare vogliono impadronirsi del potere. È il segno che gli avvocati sono importanti».

Stefano Bigolaro lo ricorda al termine di uno splendido incontro sulla giustizia, in particolare sulla giustizia amministrativa, e sul ruolo, o per meglio dire la condizione dell’avvocato, tenuto lo scorso 8 novembre a Padova. Chi si vuole impadronire del potere punta a sbarazzarsi di coloro che, dal potere, reclamano il rispetto delle regole: gli avvocati, appunto. E quella frase spaventosa ma rivelatrice è anche il titolo del libro pubblicato dallo stesso Bigolaro, avvocato padovano e consigliere nazionale dell’Unaa. Ebbene, l’evocazione violenta che ha chiuso il dibattito di due settimane fa segnala un rischio forse meno cruento ma molto attuale: la tendenza del sistema giustizia a minimizzare la presenza, il peso, il raggio d’azione dell’avvocato, in modo da correre, accelerare, efficientare, come si dice ora con termine orrendo quanto la mattanza evocata dai rivoltosi dell’Enrico VI.

Si è parlato anche di questo, l’ 8 novembre. L’incontro, che chi scrive ha avuto l’onore di moderare, è stato intitolato “Come pesci nell’acqua: vivere in un mondo amministrativo”. Il riferimento è a uno degli aspetti messi in primo piano dall’opera di Bigolaro: l’immanenza del diritto amministrativo in quasi tutte le attività sociali organizzate. Il che ricorda quanto importante sia appunto la funzione di chi deve assicurare, per ciascun singolo cittadino e per la comunità nel suo complesso, l’effettiva tutela innanzitutto nei confronti del potere. Ma se quel ruolo, se la funzione dell’avvocato è svilita, inevitabilmente le garanzie, l’ordinato svolgimento della vita collettiva, sono compromessi.

L’incontro in cui ne hanno discusso, a Padova, gli stessi avvocati è stato promosso dall’Ordine forense della città veneta. La vicepresidente del Cnf Patrizia Corona ha ricordato che sì, «davvero la vita è immersa nel diritto amministrativo, al punto che tale condizione non sempre è percepita, e vi è immerso anche l’ordinamento della nostra professione. Si colloca nel diritto amministrativo, per esempio, la situazione del candidato che intenda impugnare un esito sfavorevole dell’esame di abilitazione. La stessa natura di enti pubblici non economici riconosciuta agli Ordini forensi ci tiene ancorati al diritto amministrativo», ha fatto notare Corona, «e solo di recente il chiarimento del legislatore ha allontanato dai Coa incombenze proprie delle pubbliche amministrazioni, imposte in precedenza alle istituzioni forensi da un’interpretazione scorretta delle norme». Ecco, gli avvocati, come spiega la vicepresidente del Cnf, sono in quel sistema di regole, e ne assicurano il rispetto, non solo a tutela dei cittadini ma anche all’interno del loro ordinamento. Eppure la centralità e la responsabilità della professione forense sembrano non stemperarne mai la capacità autocritica, come ha mostrato il presidente dell’Ordine padovano Francesco Rossi: «Il decreto sulla sinteticità

degli atti processuali di recente emanato per la giustizia civile», ha detto, «ci deve ricordare che non possiamo scrivere gli atti come trent’anni fa: se voglio convincere il giudice, devo essere chiaro e sintetico. A maggior ragione», ha sostenuto il vertice degli avvocati di Padova, «in un mondo in cui la comunicazione è fulminea, viaggia sugli smartphone, e la tendenza è a fermarsi pochi istanti sulla prima pagina visualizzata». Ecco, ma subito dopo, l’avvocato e ordinario di Diritto amministrativo dell’Università di Padova Francesco Volpe, voce apprezzatissima dal mondo forense non solo in Veneto, ha garbatamente capovolto la prospettiva, fino a riportarla su un piano che ripropone la “minaccia” del titolo scelto da Bigolaro per il libro: «Trovo molte giustificazioni per noi avvocati, chiamati a un difficilissimo lavoro di coordinamento delle fonti, dalle leggi nazionali e regionali alla giurisprudenza e al diritto dell’Ue: in questo quadro, già dal 2016 incombe sugli atti di noi amministrativisti il rischio di imbattersi in una pronuncia di inammissibilità del ricorso qualora il paetitum o i motivi si trovino in una pagina che supera il limite massimo di 70mila caratteri imposto dalle regole del processo». In quei casi, come ha “svelato” la assai contestata, dall’avvocatura, sentenza 8928 del Consiglio di Stato, il giudice non è tenuto a leggere l’atto oltre il limite di pagine previsto. I limiti, imposti ora anche nel civile, si fanno esiziali proprio nell’ambito giurisdizionale in cui la controparte del cittadino ricorrente è la pubblica amministrazione. «Ma la cosa più sgradevole», ha aggiunto Volpe, «è che noi possiamo sforare, ma solo se autorizzati dal giudice: è la cosa che mi piace di meno perché l’autorizzazione implica un controllo. E non va bene che l’autorità statuale controlli come io, avvocato, svolgo il mio mandato. Perché il nostro non è un semplice servizio, ma una funzione dello Stato».

Il dibattito è stato arricchito anche dai contributi degli avvocati Dario Meneguzzo e Pierfrancesco Zen, che è anche consigliere dell’Ordine forense padovano. Ed è toccato a un altro componente di quel Coa, Edoardo Furlan, dichiarare in modo esplicito che in una giurisdizione in cui la controparte è lo stesso potere pubblico di cui fa parte il magistrato, «la terzietà e dunque l’effettività della tutela sono un miraggio». E se è così, se i giudici sono qualcosa che a volte si confonde con la controparte, e dispongono persino della facoltà di autorizzare l’avvocato a scrivere un po’ più del preventivato, magari non ci sarà il rischio di vedere uccisi tutti gli avvocati, ma quello di tenerli con le spalle al muro, proprio perché d’intralcio al potere, c’è eccome.