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L'assassinio di Fulvio Croce
Torino, 1977. Una primavera ancora lontana, una città gelida e ferita, dove le ombre si muovono veloci sotto i portici e le auto parcheggiate diventano trappole. Da tempo le Brigate Rosse colpiscono a cadenza regolare. Magistrati, giornalisti, agenti di polizia. In questo clima da guerra civile strisciante, un uomo distinto con la toga sulle spalle e l’etica come bussola, decide che la paura non può diventare legge. Si chiama Fulvio Croce, è presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino, classe 1901, piemontese fino al midollo: rigoroso, riservato, fedele a un codice d’onore che sembra uscito da un’altra epoca. Croce non cerca la ribalta e non sarà una carriera politica o mediatica a consacrarlo, ma il suo sacrificio.
Nel 1976 si era aperto a Torino il processo al nucleo storico delle Brigate Rosse: tra gli imputati ci sono Renato Curcio, Alberto Franceschini, Prospero Gallinari e Paolo Maurizio Ferrari. Ma i leader della lotta armata non intendono difendersi, non riconoscono il tribunale dello «Stato borghese » che li deve giudicare e minacciano di rappresaglia qualsiasi avvocato accetti l’incarico: «Se i difensori accettano la nomina saranno ritenuti come collaborazionisti del regime, con le conseguenze che ne potranno derivare», tuona in aula Ferrari.
L’obiettivo è palese: trasformare l’aula di giustizia in un palcoscenico politico, farne un’arma di propaganda, ma soprattutto sabotare il processo. Il problema è giuridico, ma anche profondamente morale. Secondo l’articolo 24 della Costituzione italiana ogni imputato ha diritto «inviolabile » alla difesa anche se rifiuta ogni rappresentanza; come si può dunque celebrare il processo? Un corto circuito perfetto.
A sciogliere il nodo è il presidente della Corte d’Assise Guido Barbaro che chiede al Consiglio dell’Ordine di nominare difensori d’ufficio. Ma chi accetterà di difendere i brigatisti a rischio della propria stessa vita? Il pericolo è altissimo e infatti tutti rinunciano. Ma c’è un modo per uscire dal vicolo cieco: secondo l’articolo 130 del codice di procedura penale qualora non sia possibile reperire difensori d’ufficio l’incarico passa nelle mani del presidente del Consiglio dell’Ordine, ovvero del civilista Fulvio Croce. Sarà a capo della piccola pattuglia di avvocati che accetta di rappresentare i brigatisti, non lo fa per simpatia umana, ma per difendere i principii fondamentali dello Stato di diritto e per non cedere al ricatto politico delle sedicenti avanguardie proletarie.
La democrazia, ricorda, non è mai vendetta. È giustizia. Quel gruppo coraggioso si forma sotto la sua guida. Tra loro c’è anche Franzo Grande Stevens, legale della Fiat e uomo di fiducia di Gianni Agnelli che difende il fondatore delle Br Renato
Curcio Il 28 aprile 1977, Fulvio Croce esce dal tribunale di Torino, ha appena terminato una riunione. Cammina verso la sua auto, da solo, come sempre. All’improvviso, un giovane in giacca scura si avvicina e dice ad alta voce: «Avvocato?!». Croce si volta, l’uomo estrae la pistola e spara cinque colpi in rapida successione. Fulvio Croce cade sull’asfalto senza vita. Il killer fugge in moto. Le Brigate Rosse rivendicano l’omicidio con un volantino raggelante, burocratico e intriso di fanatismo: Croce è accusato di essere «uno strumento della repressione», «un collaborazionista del regime borghese».
Per loro lo Stato di diritto e il sistema giudiziario sono solo un altro travestimento del potere servo del capitale. L'avvocato non è più un garante: è un nemico di classe. Il funerale di Croce si celebra tra il dolore e la paura. Torino si ferma. Avvocati in toga, cittadini comuni, magistrati e studenti affollano la Chiesa della Gran Madre. Il presidente della Repubblica, Giovanni Leone, lo insignisce alla memoria della Medaglia d’oro al valore civile. Una scelta rara, quasi senza precedenti per un civile in tempo di pace. Ma più delle onorificenze e delle targhette, restano le parole che Croce lascia scritte in un memoriale scritto pochi giorni prima della morte: «Chi accetta la toga, accetta anche il dovere di difendere il diritto, sempre e comunque. Anche quando il diritto è impopolare. Anche quando costa la vita».
Oggi, a quasi cinquant’anni dalla morte, il nome di Fulvio Croce è inciso nelle aule di giustizia, a lui sono dedicati premi giuridici, biblioteche forensi e la sua lezione è tanto più attuale quanto più invisibile in un tempo in cui il diritto è strumentalizzato da interessi politici e processi mediatici, in cui l’avvocato è spesso dipinto come sodale dei “criminali”, Croce ci ricorda che la giustizia non è una scelta ideologica, ma un atto di fede civile. Era un uomo mite, Fulvio Croce. Non aveva la voce stentorea dei tribuni, né il carisma narcisista degli eroi cinematografici. Possedeva però la forza silenziosa della coerenza. E in quell’aprile torinese, segnato da piombo e paura, ha mostrato che si può morire per la legge. Ma soprattutto che si può vivere per essa.