Psicologi, avvocati e magistrati: insieme per ragionare di errori giudiziari e di un metodo con basi scientifiche per evitarli. Il convegno, che si è svolto presso la sede del Consiglio Nazionale Forense, è stato l’occasione per analizzare le “linee guida psicoforensi”, redatte dalle tre categorie di professionisti e presentate da Guglielmo Gulotta, professore, psichiatra e avvocato. «Nel mondo anglosassone esistono raccolte di dati per analizzare gli errori più comuni commessi nei giudizi, estrapolandoli dalle sentenze di revisione. Noi sappiamo quanti soldi sono stati spesi per ingiuste detenzioni, ma non quali errori le hanno provocate».

«Il garantismo è un principio che esula dalla giurisdizione ed è una cultura», è stato l’esordio del presidente del Cnf Andrea Mascherin, per spiegare lo spirito del convegno “Gli errori giudiziari e la loro riduzione, le linee guida psicoforensi”, che ha visto la partecipazione non solo di giuristi, ma anche di psicologi forensi, coordinati nei lavori dal consigliere Cnf, Stefano Savi.

L’obiettivo, infatti, è stato quello di analizzare le ragioni degli errori giudiziari, a partire dalla valutazione degli errori di valutazione umani. Ad affrontare il tema è intervenuto Guglielmo Gulotta, già professore di psicologia giuridica all’Università di Torino, ma anche avvocato e psicoterapeuta, e ha cominciato mettendo in luce una enorme carenza del nostro sistema: «Nel mondo anglosassone esistono raccolte di dati per analizzare gli errori più comuni commessi nei giudizi, estrapolandoli dalle sentenze di revisione. Noi sappiamo quanti soldi sono stati spesi per ingiuste detenzioni, ma non sappiamo quali errori le hanno provocate».

Proprio perchè i giudici siano meno influenzabili da fattori esterni, ma soprattutto che la formazione della prova non sia condizionata da elementi esterni nella valutazione di testimoni, perizie o confessioni, sono state stilate le linee guida psicoforensi. «Servono a evitare la cosiddetta visione a tunnel: fatta un’ipotesi, la mente umana va a caccia di tutto ciò che la comprova, mentre tende a giudicare di poco interesse tutto ciò che la smentisce», ha spiegato Gulotta. Una di queste regole, per esempio, riguarda il metodo di condurre le identificazioni: «Bisognerebbe usare la tecnica del doppio cieco: l’ufficiale non deve sapere se oltre il vetro c’è o meno il sospettato, altrimenti rischia di condizionare con il suo comportamento la vittima che lo deve identificare. Lo stesso vale per le perizie: al perito non si dovrebbe chiedere se la pistola ha effettivamente sparato quel bossolo, ma gli andrebbero consegnati dieci bossoli, chiedendo se uno di essi sia stato esploso dall’arma ritrovata. Tesi accolta e sostenuta anche dal penalista Antonio Forza: «Gli errori più grossi nel processo penale si fanno nella fase investigativa, dove gli investigatori rischiano di orientarsi in una certa maniera e poi perdono di vista tutti gli elementi dissonanti rispetto a una prima valutazione».

Sulla stessa linea, dal fronte opposto della magistratura, si sono confrontati anche i magistrati Fabrizio Gandini del tribunale di Roma e il consigliere di Cassazione, Angelo Costanzo: «Nel celebrare i processi dobbiamo recuperare una sintassi logica, senza le illusioni del formalismo logico. Nel processo si traducono i fatti della vita in formule linguistiche, poi i giudici valutano se esse siano sussumibili in specifiche fattispecie penali».

Il professore dell’Università di Padova, Giuseppe Sartori, si è occupato invece di come i nuovi studi neuroscientifici possano essere utili strumenti di perizia, per valutare la presenza di malattie psichiatriche. «L’aleatorietà della perizia psichiatrica è dovuta al fatto che le diagnosi sono necessariamente condizionate dall’elemento soggettivo. Dunque, pur essendo prove scientifiche, hanno un tasso di attendibilità molto più basso della prova del Dna».

Sartori ha spiegato la rilevazione delle malattie psichiatriche si basa sulle dichiarazioni del paziente, mentre le neuroscienze permettono «attraverso una risonanza magnetica del cervello che mostra i correlati nervosi, di aggiungere alla valutazione un dato oggettivo non manipolabile, confermando o smentendo la percezione del soggetto in modo non mediato dalla sua percezione». Sul fronte più processuale, la professoressa Antonietta Curci dell’Università di Bari si è occupata dell’attendibilità della memoria di un testimone e dei pericoli delle domande suggestive nella fase delle indagini preliminari: «Il rischio è quello della suggestionabilità interrogativa: l’accettazione e l’autoconvinzione di ricordi spuri, veicolati all’interrogato da chi conduce l’interrogatorio».

Sul fronte opposto di chi giudica, ha aggiunto la professoressa Patrizia Catellani dell’Università Cattolica di Milano, «il rischio è quello della correlazione illusoria, ovvero che le esperienze precedenti o gli stereotipi possano influenzarne il ragionamento. Un esempio classico: la porabilità che chi è spacciatore possa commettere anche rapina».

Di qui l’importanza delle linee guida, sottolineata anche dall’ex giudice di Cassazione, Rocco Blaiotta, autore della storica sentenza Cozzini, «perchè sono il frutto del lavoro di autoregolamentazione dei soggetti più preparati: psicologi, avvocati e magistrati». L’utilizzo del sapere scientifico nel processo «è intriso di insidie: i giudici non sono preparati ad utilizzarlo, ma anche la scienza è mutabile. Per questo le linee guida prevedono di valutare ogni tecnica scientifica utilizzata con il grado di condivisione che essa ha nella comunità scientifica di riferimento». Le linee guida psico forensi sono scaricabili dal sito psicologiagiuridica. com.