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Gentile Redazione,
Vorrei parteciparvi un caso che ha interessato un mio assistito e che, pur essendo un caso limite e credo raro, ma, altresì, una delle tante storture del nostro sistema giudiziario, ritengo solleciti riflessioni ed interrogativi.
Molto in sintesi, il cliente, dopo aver scontato un periodo piuttosto consistente di reclusione in carcere in esecuzione di una sentenza definitiva di condanna, ha avuto l’amara sorpresa di dover far fronte a diversi anni arretrati di IMU e TASI relativi alla abitazione di sua proprietà, i cui avvisi di accertamento il Comune ha provveduto a notificargli appena tornato in libertà. L’Ente non ha riconosciuto esenzioni/riduzioni di imposta ed ha proceduto all’accertamento sul presupposto che la casa del mio assistito non poteva qualificarsi “abitazione principale” risultando egli nel periodo oggetto di accertamento risiedere... altrove!
In sostanza, difettava il requisito della residenza o abituale dimora nell’immobile, richiesto dall’articolo 13, comma II, del DL n. 201/2011 per beneficiare della agevolazione tributaria.
Nessuno spazio per la conciliazione/mediazione. Gli avvisi sono stati impugnati ed i relativi giudizi tributari si sono conclusi con altrettante pronunce di rigetto dei ricorsi.
Senza dilungarmi in altri dettagli e in commenti, credo che questo breve quadro basti a suscitare in chi legge - come in me ha suscitato - sconcerto e un fremito di indignazione per la sostanziale iniquità della imposizione.
Il caso non è di facile soluzione giuridica e mi ha costretto a ricercare e studiare affannosamente, studio non facilitato dal buio normativo e dalla assenza di precedenti. Nelle mie ricerche, ho trovato solo una piccola eco di cronaca di un precedente relativo al caso di un detenuto in un carcere del Nord Italia, ma non conosco l’esito che ha avuto.
Credo che sia necessario un intervento del Legislatore per porre rimedio a una inaccettabile iniquità.
Lettera firmata
Maria Luigia Prudenzi, avvocato