Entrerà in vigore il primo settembre il decreto ministeriale che detta, in attuazione dell’art. 121 c.p.c. e dell’art. 46 disp. Att. come modificati dalla recente riforma del rito civile, i parametri cui sarà necessario attenersi al fine di rendere chiari e sintetici gli atti processuali. È un decreto che, com’è noto, ha avuto una gestazione assai più lunga del previsto (sarebbe dovuto entrare in vigore il primo luglio) e il cui testo recepisce buona parte delle modifiche suggerite dal Cnf.

Il contenuto del decreto (sul quale non mi soffermo) vuole dare piena attuazione a quanto sancito nel diritto positivo, ossia che “tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico” va oltre le previsioni di cui all’art. 46 disp. att. c.p.c. e tradisce una sfiducia nell’avvocatura: se non gli diciamo esattamente quello che devono fare, questi fanno quello che vogliono.

Una sfiducia che, peraltro, quanto a sanzioni si limita a prevedere una possibile valutazione del giudice ai fini della liquidazione delle spese, differentemente da quanto previsto per il processo amministrativo dall’art. 13 ter disp. attuazione codice processo amministrativo introdotto nel 2016 che prevede l’inutilizzabilità di domande e argomentazioni svolte oltre i limiti individuati dal decreto del presidente del Consiglio di Stato. Ma certo, il senso di sfiducia resta.

Al di là di questo, tuttavia, credo che il decreto sia un’opportunità. Un’opportunità per riflettere su come scriviamo gli atti e sulle finalità per cui li scriviamo. Gli atti espongono fatti, prospettazioni, deduzioni, domande finalizzate a convincere il Giudice. Se voglio convincere il Giudice della fondatezza delle mie prospettazioni devo essere chiaro e sintetico. Era in studio con me qualche anno fa un collega bravissimo e di profonda acutezza giuridica. Scriveva atti lunghissimi in cui l’analisi era profonda e accurata e le soluzioni prospettate spesso geniali. Al termine della lettura, tuttavia, mi chiedevo sempre se in quella controversia avessimo o meno ragione….

Viviamo in un mondo in cui la maggior parte delle comunicazioni fra persone avviene attraverso messaggi di poche righe, vocali che durano pochi secondi, attraverso frasi postate sui social di cui la stragrande maggioranza degli utenti legge solo ciò che è visualizzato quando il messaggio appare, senza scorrerlo. Messaggi letti o ascoltati in uno smartphone o in un p.c.. Ecco, anche i nostri atti a seguito dell’introduzione del processo telematico vengono letti a video: se voglio comunicare devo scrivere poco e chiaro. Deve essere un atto compatibile con lo strumento attraverso cui viene letto che è un pc o forse anche un telefono. Non possiamo più scrivere come scrivevamo 20 anni fa: perché non serve più scrivere così. Il decreto (e le norme che fissano i principi) è quindi anche (e soprattutto) un’opportunità. È un’occasione per lavorare meglio, per fare meglio l’interesse del cliente.

Ma io credo sia un’opportunità anche da un altro punto di vista. Ossia nel senso che ci costringe ad essere migliori. A patto che c’intendiamo su quale sia l’avvocato (e il giudice) che vogliamo, l’”avvocato del futuro”, per mutuare una felice espressione. È l’avvocato che negli atti mette dentro tutto, tanto qualcosa di buono o di utile il giudice troverà? Non credo sia questo l’avvocato che sopravviverà al processo di transizione in corso. Quello che sopravviverà sarà solo l’avvocato capace di fornire servizi di alto livello, quei servizi che le aziende non riescono a reperire al loro interno. È sarà quindi necessariamente un avvocato che, per la sua competenza, è capace di operare scelte anche processuali delicate. Certo, scrivere poco e chiaro è difficile: ti ho scritto una lettera lunga perché non avevo il tempo di scrivertene una breve. Ma è necessario se vogliamo fornire un servizio davvero qualificato e percepito come tale.

Sono peraltro fermamente convinto che il cambiamento di cui parlo debba avvenire, anche e soprattutto, sul piano culturale, non attraverso un decreto. Sono chiaro e conciso perché riuscirò a farmi capire meglio, perché riuscirò a farmi “leggere” meglio, non perché rispetto le previsioni di un decreto. Sarebbe stato, sotto questo profilo, certamente più adeguato lo strumento del protocollo, come avvenuto per il ricorso in Cassazione. Magistrati e avvocati si confrontano su quali siano le modalità per redigere un atto, finalizzate a comprendere e a farsi comprendere meglio. Poi ognuno farà quello che vuole, ma deve sapere che – non per un diktat – ma a seguito di una condivisione fra i diversi soggetti protagonisti, quella è stata ritenuta la modalità più efficace per esprimere la pozione delle parti nell’ambito del processo.