«L’ unico errore di Laura Boldrini? Aver deciso troppo tardi di denunciare i suoi aggressori, avrebbe dovuto farlo prima». Giovanni Maria Bellu è il presidente di Carta di Roma, l’associazione dell’Ordine dei giornalisti nata per vigilare sull’applicazione del codice deontologico dell’informazione in materia di immigrazione e per contrastare l’hate speech, il discorso d’odio, che spesso infesta il web e viene veicolato attraverso i canali tradizionali di comunicazione. Giornalista di lungo corso ( inviato di Repubblica, condirettore dell’Unità, autore del libro-inchiesta I fantasmi di Porto Palo), Bellu è convinto che anche per la Rete dovrebbero valere regole simili a quelle della stampa. «Non invoco nessuna censura, sia chiaro, semplicemente non si capisce perché alcuni reati vengano perseguiti sulla carta stampata e non sul web».

Quando si parla di odio si pensa subito ai social network, ma che responsabilità ha il sistema dell’informazione?

L’odio, quello deliberato, corre soprattutto attraverso i social network e colpisce le categorie più deboli: omosessuali, immigrati, disabili. L’hate speech attecchisce lì dove si ritiene che alcuni concetti appartengano al senso comune di una popolazione: mi sento libero di attaccare gay o migranti se do per scontato che nella mia comunità siano diffusi sentimenti di ripulsa o condanna nei confronti di queste categorie. Il discorso d’odio si fonda dunque su un luogo comune negativo. Il ruolo dell’informazione è proprio quello di smontare questi luoghi comuni, se non lo fa favorisce la diffusione dell’hate speech.

Nella vostra relazione annuale specificate che noi giornalisti «nella generalità dei casi, evitiamo di diventare veicolo» dell’hate speach, anzi, «facciamo, con una certa efficacia, da filtro» al discorso d’odio. Poi su un quotidiano spunta un titolo a tutta pagina: Bastardi islamici. Cosa non ha funzionato?

Questo è un caso molto particolare su cui l’associazione Carta di Roma ha presentato un esposto all’Ordine dei giornalisti, c’è un’azione disciplinare in corso. Ma stiamo parlando di un episodio clamoroso, è difficile che sui giornali si arrivi a questi livelli. È più comune il rischio della veicolazione del discorso d’odio, non la produzione. Può accadere, ad esempio, che alcuni cronisti continuino a utilizzare termini giuridicamente impropri, come “clandestino” al posto di “rifugiato”, in aperta violazione del codice deontologico. Ma è un altro ambito, dove i casi dolo sono piuttosto limitati, normalmente il termine improprio viene utilizzato per colpa, per impreparazione. Chiaro, c’è anche chi scrive “clandestino” consapevolmente, per sfidare le prescrizioni della Carta di Roma, come quando i bambini dicono le parolacce.

Bastano i limiti stabiliti dalla Carta di Roma o servono nuovi interventi legislativi?

Da un punto di vista legislativo c’è un problema di carattere internazionale: manca una normativa eu- ropea che definisca le responsabilità dei gestori dei social network sulla diffusione di certe notizie. È paradossale che per i social, gli strumenti di informazione più capillari al mondo, esistano delle regole evanescenti, mentre per i media tradizionali, che oggi raggiungono molte meno persone, valga una normativa molto corposa. I lettori di un quotidiano sono garantiti dalla presenza di un direttore che risponde di tutto ciò che viene pubblicato sul giornale. E mai nessuno ha parlato di attentato alla libertà di informazione perché esiste ad esempio il reato di diffamazione. Ma quando si discute sull’opportunità di concepire regole precise anche per i social si urla allo scandalo, alla censura. Lo trovo surreale.

Dovrei essere considerato responsabile anche se condivido e diffondo una bufala su Facebook?

No, io mi riferisco ai discorsi d’odio conclamati: “Riapriamo i forni”, “ammazziamoli tutti”, “puliamo le strade da questa feccia”. Sono questi i messaggi che spesso circolano sui social. Bisogna colpire gli autori dell’hate speech esattamente come viene colpito un giornalista che diffama o diffonde una notizia falsa e tendenziosa idonea a turbare l’ordine pubblico.

Laura Boldrini ha fatto bene a rendere noti i nomi dei suoi aggressori virtuali?

Credo che queste persone vadano sistematicamente denunciate, non è pensabile che esistano dei luoghi franchi. D’altra parte, Laura Boldrini ha affrontato direttamente alcuni dei suoi aggressori invitandoli alla Camera. E ha scoperto che tra i commentatori più accaniti c’era una tranquilla signora che in un contesto reale mai si sarebbe sognata di usare quei toni, una certa idea della Rete trasforma le persone in mostri.

Contro la presidente della Camera spesso si scagliano non solo anonimi cittadini e avversari politici ma anche volti noti del giornalismo. Un giornalista può considerarsi un semplice commentatore quando scrive sui social o dovrebbe rispettare il codice deontologico anche su Facebook?

Come Carta di Roma abbiamo alcune regole semplici che devono essere seguite da tutti i giornalisti. La violazione di queste norme però deve essere specifica, non pensiamo di poter modificare la cultura giornalistica in Italia. O almeno così intendo io la mia presidenza della Carta. Certo, se qualcuno va sopra le righe possiamo scrivere un articolo di commento sul nostro sito che segnali un atteggiamento poco elegante, ma finisce lì. Ci accontentiamo di sapere che quando si parla di immigrazione non si scrivano stupidaggini.

Che idea si è fatto dell’attacco mediatico alle Ong?

Fino a poco tempo fa nessuno sapeva che le Ong salvavano vite in mare. Poi il tema è entrato nell’agenda politica e il giornalismo italiano, dati alla mano, è strettamente legato a quell’agenda. Il risultato è stata un’informazione che ha tenuto conto del dibattito soprattutto governativo - e non ha svolto il suo ruolo, come accade spesso in questi casi. Basta fare un’analisi quantitativa storica sul picco di notizie legate all’immigrazione, si scoprirà che il maggior numero di servizi si registra o davanti a una tragedia del mare o in coincidenza perfetta con gli appuntamenti elettorali. Questo significa che il confronto avviene necessariamente in termini conflittuali, con una semplificazione che nutre l’ignoranza del fenomeno. Per quanto mi riguarda, non dovrebbe essere tema di discussione e neanche di normazione il fatto di poter salvare una vita umana in più, anche senza rispettare alla lettera i protocolli.