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È stato presentato stamattina a Montecitorio il Rapporto Aiga sulla giovane avvocatura, nel quale si mettono in evidenza due criticità: i redditi bassi e il gender gap. Lo studio, realizzato dal dipartimento Pari opportunità dell’Associazione italiana giovani avvocati, guidato da Roberta Giliberti, si basa sulla raccolta on line di dati e informazioni forniti da 600 professionisti (sugli 8.000 iscritti ad Aiga) riguardanti aspettative, esigenze e problematiche. Una ricerca che restituisce un quadro ricco più di ombre che di luci sulla condizione professionale sperimentata da chi ha meno di 45 anni.
Dopo l’apertura dei lavori da parte del vicepresidente di Aiga Carlo Foglieni, candidato alla presidenza dell’associazione in vista del congresso in programma a Bari dal 16 al 18 novembre, è stata l’avvocata Giliberti a snocciolare i numeri più interessanti emersi dall’indagine.
Fra questi vi è in primo luogo «il livello reddituale insoddisfacente, che spiega anche la disaffezione dei giovani nei confronti della professione legale, tanto che oggi è ormai evidente una sorta di crisi del praticantato, caratterizzata dalla difficoltà nell’individuare le nuove leve dell’avvocatura». In effetti, tra le 364 avvocate che hanno risposto al questionario, solo il 6,3% ha dichiarato di raggiungere un reddito superiore a 50mila euro lordi, mentre tra i 251 colleghi che hanno partecipato all’indagine, quella percentuale si triplica (18%). Se a questo si aggiunge che il 53% delle donne avvocate guadagna meno di 15mila euro, soglia al di sotto della quale si trova il 36% degli avvocati maschi, allora diventa chiaro il contorno della situazione critica della professione, sia sul piano reddituale sia su quello del gender gap. Su quest’ultimo pesa anche il differente ruolo nella famiglia, «aspetto dimostrato dal fatto che, mentre il 54% delle donne ammette come l’esercizio della professione abbia condizionato le scelte personali di vita, solo il 41% degli uomini riconosce tale circostanza». Non è quindi un caso che solo un avvocato su 4 con meno di 35 anni abbia un figlio.
Lo stato di disagio e di incertezza dei giovani avvocati è provato anche dalla percentuale di coloro che hanno risposto affermativamente alla domanda se si è mai pensato di lasciare la professione: lo hanno fatto il 53% delle donne, e il 37% degli uomini. Meritano di essere considerate anche le ragioni addotte per questo dubbio, fra le quali si ritrovano, ricorda Giliberti, «lo squilibrio tra impegno e guadagno, l’aleatorietà dei risultati, le difficoltà amministrative e gli oneri troppo alti, lo stress nel conciliare lavoro e famiglia».
Fra le poche luci che emergono dal Rapporto, va citato quell’84% di intervistati che dichiara di svolgere l’attività in uno studio in cui non vi è alcun familiare, a dimostrazione che si è superato il vecchio carattere “ereditario” della professione.
Ma come si possono superare queste criticità? Nell’incontro a Montecitorio, il deputato di FdI Paolo Pulciani, componente della commissione Giustizia, ha cercato di trovare risposte a questa domanda, partendo da un dato: «La riduzione dei redditi è stata la logica conseguenza dell’aumento dell’offerta dei servizi legali, per effetto del crescente numero di professionisti, sebbene negli ultimi tempi si sia registrata una inversione di tendenza». E se è da salutare con soddisfazione l’incremento della quota femminile che, nella professione, è ormai maggioritaria, è innegabile che le diverse esigenze familiari ancora esistenti tra uomini e donne spiegano la differenza reddituale, che «potrà essere superata in futuro con la telematizzazione dei processi, che consente all’avvocato di svolgere anche da casa diverse attività».
Sul fronte reddituale, «la flat tax da una parte, e la legge sull’equo compenso dall’altra, dovrebbero attenuare la problematica, e un ulteriore passo avanti potrebbe essere costituito dalla riduzione delle incompatibilità, che attualmente restringono sensibilmente il campo di azione degli avvocati».