Il potere in Italia ha avuto i suoi segreti. Ma non nel senso più retrivo e più banale, non sotto la specie dei misteri e delle trame oscure. Ci sono segreti, cioè risorse segrete, quasi invisibili o almeno poco ostentate, eppure preziosissime, provvidenziali, che spiegano la storia del Novecento. E anzi l’hanno scritta. Franzo Grande Stevens, scomparso ieri a 96 anni, una vita dedicata alla “religione dell’avvocatura”, un ossequio quasi mistico, per la professione, è uno di quei meravigliosi segreti. Una delle carte a cui i grandi della società, della finanza e dell’industria italiane del secolo scorso si sono affidati nei momenti più difficili.

Grande Stevens è stato l’architrave che ha sorretto le ambizioni di un uomo d’impresa straordinario, Gianni Agnelli, ma ne ha rappresentato anche l’alter ego. Da una parte, ai vertici della famiglia che ha cambiato il capitalismo industriale italiano, un uomo ironico, potente, un primattore. Dietro le quinte, una figura settecentesca, coltissima (lo era anche Agnelli, certo) e devota a un senso del rigore, nel vestire la toga come nel guidare alcune fra le più grandi società della finanza come dello sport, assoluto.

Sono trascorse poche ore da quando la famiglia ha dato la notizia, dalla fine di Franzo Grande Stevens, e dalla conferma affidata alle condoglianze di John Elkann, che ha evocato «l’amico della mia famiglia». Si sono moltiplicati i messaggi di cordoglio, dalla Federcalcio al sindaco di Torino Stefano Lo Russo. Ma Grande Stevens era ed è sempre rimasto innanzitutto un avvocato. È stato al vertice della massima istituzione dell’avvocatura, il Consiglio nazionale forense. Che ha ricordato il «protagonista di primo piano della storia civile e professionale del nostro Paese». Sì, nella nota in cui via del Governo vecchio «partecipa con profondo cordoglio al lutto per la scomparsa dell’avvocato Franzo Grande Stevens», si legge: «Dal 1981 al 1991 al Cnf, dapprima come consigliere, poi vice presidente e infine presidente dal 1984 al 1991, Grande Stevens ha saputo unire alla competenza giuridica una visione alta e lungimirante del ruolo dell’avvocatura nella società. È stato per oltre settant’anni un protagonista del Foro, della cultura giuridica e della vita pubblica italiana».

Ecco: la presidenza onoraria della Juventus conservata fino alla fine, e della Compagnia di San Paolo, e la vicepresidenza della Fiat, naturalmente, la partecipazione ai Cda di Ifil e di Rcs. Tutte pagine di una storia inarrivabile, che solo l’eleganza e la sobrietà dell’uomo potevano avvolgere in un manto così discreto. Ma comunque Franzo Grande Stevens è rimasto fino all’ultimo, innanzitutto un maestro dell’avvocatura. È stato, come ricorda sempre il Cnf, «difensore in processi di rilievo storico, da quelli delle Brigate rosse», al fianco di Fulvio Croce, «alle grandi vicende economiche italiane», perché tra i suoi assistiti non c’è stata solo la Fiat, ma anche Carlo De Benedetti, la famiglia Ferrero, Pininfarina, Lavazza.
Ancora, l’istituzione degli avvocati ricorda: «Ha lasciato un’impronta personale e inconfondibile, testimoniando con coerenza che l’avvocato, come amava dire, “è e rimane figlio del suo tempo”, chiamato a interpretare la professione con integrità correttezza e dedizione nel rispetto della deontologia». Fino all’omaggio, insieme con il «Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Torino, della intera comunità forense torinese e dell’avvocatura tutta» reso «con gratitudine e rispetto a un maestro del diritto, a un servitore delle istituzioni, a un avvocato che ha onorato la toga con intelligenza, passione e coraggio».

Non potremmo mai spiegarci la storia del Novecento italiano senza un avvocato e un uomo così. Anche perché Franzo Grande Stevens era un meraviglioso esempio di meridionale colto che ha messo il proprio spirito a disposizione della parte più economicamente forte del Paese. «Mi hanno detto che lei è bravo. Mio nonno affidò la sua prima causa a un avvocato napoletano: gli portò fortuna. Io adesso officio lei». Gianni Agnelli gli disse così. Lui, Grande Stevens, aveva studiato alla Federico II, l’università di Napoli, dov’era nato, con Francesco Barra Caracciolo. A pensarci, ha incarnato l’unità del Paese nel più profondo dei modi possibili, ha realizzato l’incontro fra la borghesia colta del Sud e la grande industria del Nord. Una coesione altrimenti introvabile.

Un anno fa l’Ordine forense della sua città adottiva, Torino appunto, ha avuto l’orgoglio di riconoscergli ancora un’onorificenza, per i 70 anni con la toga addosso. Lui ha fatto qualcosa che solo chi ha dentro la grandezza della funzione assai più che il narcisismo della propria celebrità poteva concepire. Ha scritto una lettera a un giovane collega. E ha ricordato: “Chi come me ha quasi un secolo di vita e ha trascorso settant’anni da avvocato, ha visto e vissuto i cambiamenti della nostra professione perché come ho sempre detto, l’avvocato, più di ogni altro, è e rimane figlio del suo tempo. Ci tengo però a ricordare che, nonostante il mondo sia mutato, le regole di correttezza, integrità, dedizione e deontologia rimangono sempre valide, quelle stesse regole che il nostro Fulvio Croce ha sempre rispettato fino al punto di pagare con la propria vita”.

Se c’è un’Italia che ha retto a tutto, a ogni cosa, se il grande capitalismo familiare ha superato le proprie cadute, è perché ci sono segreti ben custoditi, che hanno nomi e cognomi: leggere alla voce Franzo Grande Stevens.