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Nel 2017 fu una fiammata. Un ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che interpreta con ammirevole umiltà e studio il proprio ruolo, prende appunti ai convegni dell’Anm e agli incontri con il Cnf. Un’istituzione forense determinatissima a perseguire obiettivi politici. Scocca così l’irripetibile prima scintilla dell’equo compenso.
Una legge inserita in due distinti e paralleli vettori legislativi: decreto fiscale e legge di Bilancio per il 2018. Partita appunto dagli avvocati e dal “loro” ministro, ed estesa tra molte resistenze a tutte le professioni ordinistiche, con tentativi di interdizione compiuti fino all’ultimo da Confindustria. Ci fu il via libera dell’allora premier Matteo Renzi e di una maggioranza diversa dall’attuale, ma appunto senza gli avvocati, senza il Cnf, non sarebbe successo nulla.
Oggi è diverso: oggi l’aula di Montecitorio ha approvato in via definitiva la seconda legge sull’equo compenso. Una quasi unanimità clamorosa (243 sì, nessun voto contrario e 59 astenuti del Pd), Tredici articoli che riassorbono la confusa (dal punto di vista dell’allocazione formale) disciplina preesistente e la ampliano in meglio. Iniziativa a firma di Giorgia Meloni, che se ne assume apertamente la “responsabilità” («restituiamo dignità e giustizia ai professionisti) e del leghista Jacopo Morrone. C’è il timbro dell’intera maggioranza di goverbo ovviamente: in realtà non compare l’estensore dell’analoga proposta nella precedente legislatura solo perché si tratta di Andrea Mandelli, che non è tornato in Parlamento.
Poco fa a Montecitorio si è assistito a un esame lampo, rarissimo nella sua spiazzante efficacia. In base al regolamento d’aula, il presidente di turno Rampelli ha messo in votazione null’altro che il solo passaggio modificato dal Senato nella precedente lettura, l’articolo 7, quello con l’ornai celebre richiamo normativo al rito semplificato corretto dopo l’entrata in vigore della riforma Cartabia.
Le opposizioni hanno presentato 6 ordini del giorno, con altrettante richieste di intervenire sui pochi punti da tutti ritenuti meritevoli di affinamento (anche dalla stessa avvocatura): le sanzioni per chi accetti compensi al di sotto delle soglie minime (che non sono più solo «conformi» ai parametri ma inderogabilmente fissate a quegli indicatori ministeriali); l’estensione delle tutele a professioni non ordinistiche per ora escluse; l’ampliamento dello spettro di committenti a cui l’equo compenso può essere imposto (dal giudice, su isrtanza del professionista) con la legge approvata oggi, oltre dunque le banche, le assicurazioni, le Pa, le imprese che abbiano oltre 50 dipendenti o più di 10 milioni di fatturato, e senza tenere fuori società veicolo di cartolarizzazione e agenti della riscossione, come previsto dall’articolo 2 comma 3; la possibilità di rendere retroattivi i vincoli, in particolare per le vecchie convenzioni che i “committenti forti” potrebbero non aggiornare più per aggirare la legge appena approvata.
Modifiche su cui si attesta una apparente divergenza fra maggioranza e opposizione: in realtà si tratta di un dato più formale che sostanziale. È andata cosi: il Pd, con Federico Gianassi e Chiara Gribaudo, e il Movimento 5 Stelle, con Valentina D’Orso e Carla Giuliano, hanno chiesto l’immediato impegno del governo a rivedere i citati passaggi controversi della disciplina. Il viceministro Francesco Paolo Sisto ha proposto riformulazioni che trasformano la tassatività dell’impegno in possibilità, per l’esecutivo, di valutare e riformulare le norme in successivi percorsi legislativi. A Pd e 5S non è piaciuta questa libertà: gli ordini del giorno sono stati perciò messi in votazione nell’originaria e vincolante forma, e sono stati tutti respinti, anche se in linea di principio la stessa maggioranza è aperta, con sfumature diverse, ai futuri aggiustamenti.
Che le migliorie arrivino, lo auspica innanzitutto il Cnf: il presidente Francesco Greco definisce l’approvazione definitiva della legge sull’equo compenso «un passo significativo verso una maggiore tutela della dignità professionale degli avvocati e una maggiore trasparenza nella relazione tra avvocati e clienti» ma aggiunge che «seppure sia una norma molto importante, pone delle criticità da risolvere». E cita con puntualità «l’articolo 11 che prevede l’applicazione della corretta remunerazione solo alle nuove convenzioni da stipulare e non anche a quelle già in essere. Ciò significa», fa notare Greco, «che i clienti forti non registreranno nuove convenzioni con i professionisti, e di fatto la legge sull’equo compenso potrebbe restare una norma vuota priva di applicazione.
La soluzione sta nel prevedere che la legge si applichi ai nuovi incarichi anche se all’interno delle vecchie convenzioni. Solo così ci sarà una vera svolta», spiega il presidente del Cnf, «si salverebbero i bilanci degli enti pubblici e, regolando con la nuova disciplina tutti i nuovi incarichi, si tutelerebbero la professionalità e le competenze degli avvocati». Greco infine ricorda: «Il Cnf ha seguito attentamente l’iter del ddl fin dal primo approdo in Parlamento nelle passate legislature, e ha partecipato attivamente al dibattito sul tema, sostenendo con decisione l’importanza di approvare una legge di civiltà che tutela il diritto a una retribuzione giusta per i lavoratori, così come è sancito dall’articolo 36 della Costituzione.
È pertanto necessario che vengano apportati alcuni correttivi, come promesso dai parlamentari che sono intervenuti sulla questione. Il Cnf si impegnerà a vigilare sull’applicazione della nuova legge e sulla tutela dei diritti dei professionisti, affinché possano prestare la loro competenza intellettuale con la giusta remunerazione e la dovuta dignità professionale».