Sembra non essere nato sotto una buona stella il disegno di legge sull’equo compenso, nonostante il fatto che la prima firmataria sia diventata primo ministro, e quindi in apparenti buoni rapporti con la dea bendata.

È questa la considerazione che è venuta spontanea quando, alla fine della scorsa settimana, è emerso il classico granellino di polvere che ha inceppato il meccanismo ben oliato dalla volontà di tutte le forze politiche di far approvare questo provvedimento, che, al di là di alcune criticità, ammesse perfino dal governo (a cominciare dal meccanismo sanzionatorio per i professionisti che non rispettano la disciplina), era comunque visto dall’intera maggioranza e dalla gran parte dei professionisti come un concreto passo avanti nella tutela di un’importante componente del mondo del lavoro, quale è quella, appunto, del lavoro autonomo intellettuale.

Il granellino a cui si fa riferimento è la citazione dell’articolo 702- bis del codice di procedura civile — richiamato all’articolo 7, comma 1, dell’dell’AS 495 (attuale codice identificativo del ddl sull’equo compenso, alla Camera numerato come AC 338) — nell’ambito della procedura per il parere di congruità emesso dall’Ordine o dal collegio professionale sul compenso del professionista, che acquista efficacia di titolo esecutivo, “se il debitore non propone opposizione innanzi all’autorità giudiziaria, ai sensi dell’articolo 702- bis del codice di procedura civile”: e qui casca l’asino...

Infatti, l’articolo 702- bis c. p. c. è stato abrogato dal D. Lgs. 149/ 2022 (contenente la riforma del processo civile), attuativo della legge delega 206/ 2021, e pubblicato in Gazzetta ufficiale il 17 ottobre 2022: tale abrogazione è entrata in vigore il 28 febbraio scorso ( ex art. 35 del D. Lgs. 149/ 2022). Va detto che in un paese, come il nostro, in cui la precisione non regna sovrana, non deve destare onestamente neppure più di tanto scalpore che alla Camera dei Deputati, non tanto i parlamentari,

quanto neppure i bravissimi funzionari delle commissioni di Montecitorio, non si siano accorti, al momento della discussione, per la successiva approvazione il 25 gennaio scorso, che il testo conteneva un riferimento legislativo che era di fatto già superato (anche se formalmente ancora in vigore a quella data del 25 gennaio). In pratica, la svista, che ha avuto luogo alla Camera a gennaio, comporta, di fatto, la necessità di sostituire il riferimento contenuto nell’art. 7 dell’AS 495, con un nuovo corrispondente articolo dell’attualmente vigente codice di procedura civile, e quindi di modificare il testo, con conseguente necessità di rinvio del provvedimento alla Camera dei Deputati, per una sua nuova approvazione, auspicabilmente senza modifiche, pena, la prosecuzione del rimpallo del provvedimento tra un ramo e l’altro del Parlamento.

Secondo alcuni esponenti delle opposizioni, e di qualche rappresentante del mondo delle professioni, questa nuova situazione non rappresenterebbe necessariamente un male, come ha ricordato un articolo del Sole 24 Ore uscito il 10 marzo. In effetti, più soggetti hanno colto l’occasione per segnalare che, venuto meno il motivo dell’urgenza dell’approvazione, circostanza invocata anche a Montecitorio per respingere gli emendamenti che le forze di opposizione avevano presentato (ma che poi loro stesse avevano rinunciato a votare, non volendo apparire nemiche di una parte importante dell’elettorato), sarebbe allora il caso di modificare le parti del provvedimento più criticate.

Per il momento non è nota la posizione del governo e delle principali forze politiche, ma intanto oggi pomeriggio è prevista una riunione in commissione Giustizia di Palazzo Madama, e a quel punto, visto che è in programma la decisione sugli emendamenti, si dovrà decidere quale altra puntata scrivere di quello che ormai sembra un “feuilleton” degno della migliore tradizione letteraria europea.