Non è la prima Regione ad affrontare il tema. Non sarà l’ultima, con ogni probabilità. Ma la Basilicata del governatore Vito Bardi ha il merito di aver inserito, in una propria delibera, un’affermazione che dovrebbe essere il punto fermo di tutte le misure sull’equo compenso: nell’atto di indirizzo varato lo scorso 7 agosto, infatti, la giunta richiama il «fenomeno» che «negli ultimi anni, anche per effetto della abolizione dei tariffari, ha visto molte amministrazioni prevedere compensi non correttamente parametrati alla qualità e quantità delle prestazioni richieste».

Chiarissimo. E coraggioso. Perché il pro memoria inserito nell’atto della Regione Basilicata riconosce il nesso tra l’abolizione delle tariffe imposta dodici anni fa dalle lenzuolate di Bersani e la perdita di decoro sofferta dai professionisti, avvocati innanzitutto, per l’indegnità delle retribuzioni. Da qui, la giunta lucana trae i presupposti per la delibera con cui, il mese scorso, ha vincolato se stessa, le proprie controllate e i propri “fornitori privati” a tutelare il diritto dei professionisti all’equo compenso. È un esempio, anche in termini di analisi sociale, che sembra preparare al meglio il terreno per le norme in corso di elaborazione al ministero della Giustizia, e destinate a blindare la disciplina nazionale introdotta nel 2017.

Si può dire che quella dell’equo compenso sia stata una “estate calda”. O per usare un’immagine più coerente con quanto avvenuto a partire dal 2018, si può parlare di “onda lunga” dell’equo compenso. Oltre che dalla Basilicata, sono arrivati nelle ultime settimane provvedimenti in materia da altre tre Regioni: dall’Abruzzo lo scorso 18 giugno, dalla Puglia il 5 luglio e dal Veneto ( come riportato dal Dubbio nell’edizione del 4 settembre, ndr) la settimana scorsa.

Con il segnale registrato anche nelle Marche, dove proprio ieri è stata annunciata la presentazione di una analoga proposta di legge regionale che i consiglieri confidano di vedere approvata già il mese prossimo. Tutti provvedimenti che si aggiungono a quelli approvati, a partire dall’anno scorso, innanzitutto in Toscana e poi in Sicilia, Calabria e nel Lazio. Spesso all’unanimità, come avvenuto a Roma, o comunque con apprezzabili convergenze, come nel caso del Veneto, dove al relatore leghista si è affiancata una correlatrice del Pd.

Le quattro iniziative più recenti, registrate appunto a Bari, L’Aquila, Venezia e Potenza, segnalano anche un altro aspetto: la tendenza delle Regioni ad adottare ormai uno standard uniforme nel definire di testi normativi. In tutti e quattro i casi, infatti, le leggi ( o la delibera, nel caso lucano) si richiamano alla legge nazionale con specifico riferimento ai parametri previsti per ciascuna categoria.

Nelle premesse del proprio atto di indirizzo, la Basilicata, per esempio, non manca di richiamare, nel caso degli avvocati, il decreto di inizio 2018, che ha chiarito l’inderogabilità dei minimi. In tutti i casi si adottano misure per accertare l’effettivo avvenuto pagamento del professionista anche per prevenire l’evasione fiscale.

Nella legge pugliese si prevede, che i professionisti debbano fornire «una attestazione asseverata in ordine alla congruità del compenso conseguito». Vengono sempre vietate le “clausole vessatorie”. Così come si ribadisce sempre quanto sia «inaccettabile» il ricorso a «bandi pubblici per importi irrisori o addirittura a titolo gratuito», come hanno ricordato due giorni fa in conferenza stampa i firmatari della proposta di legge presentata nelle Marche. Uno “scandalo” che, insieme con la tenacia mostrata dal Cnf nell’avviare la battaglia per l'equo compenso, è diventata la spinta decisiva anche per le Regioni.