Che ci siano forze contrarie a una disciplina rafforzata sull’equo compenso è comprensibile, e non è una novità. Le norme introdotte per la prima volta a fine 2017, grazie all’impegno del Cnf e dell’allora guardasigilli Andrea Orlando, sono ora sottoposte a un tentativo di restyling in corso al Senato, dopo il via libera di Montecitorio al testo ( AC 3179) firmato Giorgia Meloni, arrivato lo scorso 13 ottobre. Naturalmente in attesa che i lavori di Palazzo Madama prendano una direzione chiara ( con il voto sui non pochi emendamenti presentati dai partiti), si moltiplicano le spinte in direzioni opposte. Spicca per esempio il parere, di cui ha dato conto il Sole- 24 Ore di ieri, prodotto da tre accademici: Giulio Napolitano di Roma-Tre, Silvio Martuccelli della Luiss e Gian Michele Roberti della Sapienza. Un giudizio assai critico sulla “riforma”, in cui colpisce una tesi che il quotidiano di Confindustria sintetizza così: “L'automatica nullità dei compensi pattuiti in misura inferiore agli importi stabiliti dai decreti ministeriali reintroduce di fatto un sistema di tariffe minime analogo a quello abrogato dal decreto Bersani nel 2006, sulla scorta delle sollecitazioni della Ue e dell’Antitrust”, ma “un sistema rigido di tariffe minime non sarebbe giustificato da un interesse pubblico, come invece richiesto dalla direttiva Bolkenstein”, annotano gli studiosi. Ecco: non ci sarebbe un interesse pubblico ad assicurare retribuzioni dignitose ai professionisti, innanzitutto agli avvocati. Ne sono così sicuri, gli accademici che hanno avvalorato la tesi? È un’idea che tradisce una visione non solo ultraliberista sul lavoro autonomo, ma anche disorganica rispetto allo sviluppo e alla crescita economica. Come si può ancora credere, dopo gli anni bui della crisi deflagrata nel 2011, che il mondo delle libere professioni rappresenti un universo sganciato dal sistema sociale, un’autosufficiente isola del privilegio? Come persistere in visioni fuori dal tempo dopo uno studio rigoroso sull’avvocatura come quello pubblicato una settimana fa da Censis e Cassa forense, in cui il 32,8 per cento degli intervistati dichiara di considerare seriamente l’addio alla professione, innanzitutto per via - lo dice il 52,9 per cento degli avvocati - della “scarsa remuneratività” del lavoro? Com’è dunque possibile sostenere che il compenso dei professionisti non rappresenti una rilevantissima questione di interesse pubblico, addirittura un’emergenza sociale?

Non preoccupa più di tanto la legittima ma per nulla condivisibile analisi accademica sull’equo compenso. Non dovrebbe preoccupare perché il Senato pare deciso nel confermare e anzi rafforzare i contenuti della legge approvata a Montecitorio. Al momento la convergenza politica sembra assoluta. L’iniziativa, è vero, ha un’originaria connotazione di centrodestra: la prima firmataria del testo adottato come base già alla Camera è la leader di FdI Giorgia Meloni, ne sono cofirmatari Jacopo Morrone della Lega e il responsabile Professioni di FI Andrea Mandelli. A Palazzo Madama il relatore, Emanuele Pellegrini, proviene sempre dal Carroccio, ed è tra l’altro un avvocato. Ma come detto all’inizio, l’equo compenso porta in sé la firma di Orlando, che 5 anni fa raccolse l’impulso del Cnf e del presidente Andrea Mascherin. Difficile dunque che i dem possano ritrattare una linea consolidata da anni, difficile anche che una forza solidarista come il Movimentoi 5 Stelle possa passare per l’unico vero ostacolo alla tutela dei professionisti. Ma naturalmente non si può dare niente per scontato, e una posizione come quella esposta nel parere dei tre accademici ricorda quanti nemici abbia la sfida sui compensi. Strano però che il clima di sofferenza sociale aggravato da due anni di pandemia, in cui proprio il lavoro autonomo, i professionisti e tra loro innanzitutto gli avvocati hanno pagato un prezzo altissimo, non scoraggi letture cosi anacronistiche.

Colpisce per esempio che lo studio, sempre nella sintesi riportata sul Sole, critichi il richiamo a soglie minime inderogabili ( e corrispondenti ai parametri ministeriali) per i compensi dovuti ai professionisti dai clienti forti ( Pa e partecipate incluse) pure perché “sganciato da ogni proporzionalità dettata da esigenze di tutela dei consumatori, anche per quanto riguarda la qualità delle prestazioni”. Come se ancora non si fosse radicata l’idea, anche tra gli studiosi, per cui la concorrenza al ribasso nel lavoro intellettuale non può che scaricarsi proprio sulla perdita di qualità. Viene anche obiettato che il restyling della legge prevede di correggere le norme sulla prescrizione per la rivalsa del professionista contro i compensi sotto soglia, in modo che il termine decorra non da una certa singola prestazione ma dalla “data in cui cessa il complessivo e ben più lungo rapporto con l’impresa”. Eppure sembra una regola dalla ratio semplicissima: è inevitabile che un avvocato, per esempio, si vedrà costretto a sospendere ogni azione pur di non compromettere il rapporto col cliente. Ma ingabbiarlo in una simile condizione equivale a invocare lo schiavismo del professionista. Davvero una lettura inspiegabile, in cui si fa fatica a non cogliere la nostalgia per uno schema mercatista sorpassato e doppiato più volte da quanto la realtà ha proposto in questi ultimi anni.