Il 1 dicembre scorso sono state approvate dal Consiglio dei ministri alcune modifiche al Codice comportamento dipendenti pubblici del 2013, fissando alcune regole da seguire per chi lavora nella Pubblica Amministrazione che cambia.

La più curiosa ed interessante è sicuramente l’innovazione - subito definita la netiquette nella pubblica amministrazione, cioè quell’insieme di regole racchiuse nelle parole che unisce i termini inglese network (rete) e quello francese etiquette (buona educazione) - che impone ai dipendenti di osservare determinati comportamenti non solo nello svolgimento del proprio ufficio, ma anche nella vita quotidiana.

D’altra parte, non è un mistero che l’uso generalizzato dei social media ha creato in alcuni casi imbarazzi di non poco conto nella pubblica amministrazione, anche in settori particolarmente esposti.

Cosa prevede questa disposizione di così innovativo? Innanzitutto, il dipendente pubblico, nell’utilizzo degli account dei social media di cui è titolare, deve evitare che le opinioni espresse e i contenuti pubblicati, propri o di terzi, siano in alcun modo attribuibili all’amministrazione di appartenenza o possano, in alcun modo, lederne il prestigio o l’immagine.

In ogni caso il dipendente è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale.

Allo stesso modo il dipendente non può trattare comunicazioni, afferenti direttamente o indirettamente al servizio, attraverso conversazioni pubbliche svolte su qualsiasi piattaforma digitale. Se poi tali comportamenti sono perpetrati sulle piattaforme social con indicazione dirette o ricavabili della qualifica professionale o di appartenenza del dipendente, costituiscono elementi valutabili ai fini disciplinari.

È, dunque, una delle Milestones (traguardi) previste dal Pnrr per la riforma della Pubblica amministrazione in senso modernizzante, per adeguare il lavoro pubblico al nuovo contesto socio-lavorativo (si pensi allo smart working) e all’evoluzione e maggiore diffusione di internet e dei social network.

Più che di un’innovazione si tratta, tuttavia, di un ritorno al passato necessario per affrontare (e vincere) le sfide future: chi presta la propria attività lavorativa, rappresentativa o funzionale per le istituzioni non può prescindere dalla consapevolezza di dover conformare la propria condotta al dovere costituzionale di servire esclusivamente la nazione con “disciplina ed onore e di rispettare i principi di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione”.

Il leit motiv, dunque, non è nuovo, ma è ben radicato nella Costituzione. Basti pensare che sino a qualche decennio fa vigeva la prassi di prestare giuramento prima di prendere servizio nella pubblica amministrazione, rituale che determinava nel giovane dipendente un senso di sacralità, appartenenza e immedesimazione.

Disciplina, onore, prestigio, decoro, non devono, quindi, rappresentare meri esercizi linguistici, bensì devono tornare ad essere sentiti e praticati come valori cui ispirare la propria condotta, dentro e fuori il luogo di lavoro pubblico.

E allora, bene porre l’accento sul “ritorno al passato” dei valori, ma non è con i divieti e le sanzioni che si ottiene il risultato. Il risultato si ottiene ricreando quelle condizioni valoriali, percettive, economiche e professionali, affinché lavorare nel pubblico sia percepito e rappresenti un prestigio, un’ambizione per i giovani, non una rassegnazione o un ripiego.

Non si può fare il “pubblico dipendente” perché non si sa cosa altro fare. Quando scelsi di diventare avvocato della Pa avvertii forte la consapevolezza di lavorare per l’interesse pubblico proprio quando prestai il giuramento, la cui formula ricorda a tutti noi il senso del proprio impegno professionale al servizio della comunità, cui si desidera dimostrare di esserci e di svolgere la funzione scelta con serietà ed impegno.