Chi difende i difensori? Da questa domanda si è sviluppata la prima giornata dell’undicesimo congresso giuridico distrettuale in corso a Bolzano fino sabato. Nella sala convegni dell’Eurac, Karl Pfeifer, presidente del Coa bolzanino, ha aperto i lavori alla presenza di oltre trecento avvocati provenienti da tutto il Trentino-Alto Adige. «Siamo immersi nella storia», ha esordito Pfeifer. «I tragici eventi degli ultimi anni», ha aggiunto, «dimostrano quanto sia in crisi la tutela dei diritti». Il presidente del Coa di Bolzano ha fatto riferimento alla “situazione europea”, dove, purtroppo, i venti di guerra stanno mettendo a dura prova il diritto di difesa.

Hanno portato i loro saluti anche i presidenti dei Coa di Trento (Antonio Angelini) e Rovereto (Andrea Tomasi). Il primo ha ringraziato la vicepresidente del Consiglio nazionale forense, Patrizia Corona, per aver avuto negli anni scorsi la grande intuizione di organizzare ogni anno il congresso giuridico distrettuale. «Questa iniziativa - ha detto Angelini – è una occasione preziosa di confronto». Il suo omologo di Rovereto, Andrea Tomasi, ha sottolineato il valore dell’iniziativa in corso nel capoluogo altoatesino: «È un momento di approfondimento che rafforza il nostro senso di appartenenza».

I lavori del congresso giuridico sono stati moderati da Francesco Palermo (ordinario di diritto pubblico comparato nell’Università di Verona). «La vera tutela dei diritti - ha sottolineato l’accademico - si realizza se vi è consapevolezza della loro esistenza. Ecco perché è fondamentale diffondere la cultura del diritto». La professoressa Delia Ferri della “National University of Ireland Majnooth” ha parlato della tutela dei “nuovi diritti”, vale a dire quelli di terza generazione che riguardano chi fa i conti con la disabilità e che si fondano sulla “uguaglianza inclusiva di specifici gruppi di persone”.

Il convegno ha rappresentato l’occasione per fare il punto sulla condizione in cui versano gli avvocati perseguitati in diversi Paesi. Antonio Fraticelli del Foro di Bologna (presidente dell’Unione Crint italiane) ha parlato della sua esperienza di osservatore in alcuni processi in corso in Turchia che vedono alla sbarra molti avvocati. «La nostra – ha rilevato Fraticelli – è una funzione sociale. Come avvocati, partecipiamo alla sacralità della celebrazione del processo. Senza giustizia, non c’è democrazia. Ogni avvocato è parte integrante di questo principio. Pertanto, quando si vuole minare la democrazia il bersaglio preferito sono proprio gli avvocati».

Il direttore del Dubbio, Davide Varì, è intervenuto sui guasti del processo mediatico in cui la difesa viene relegata in un angolo e il presunto colpevole, già condannato da certi “tribunali” televisivi o della carta stampata, non ha possibilità di difendersi. «Nel processo mediatico – ha affermato Varì - l’avvocato è un intruso, un avversario, un ostacolo da rimuovere. Certo, non siamo la Turchia, non siamo neanche l’Iran o la Russia di Putin. Il giornale che dirigo ha una grande facilità di dialogo con l’avvocatura internazionale e vi assicuro che nelle zone di guerra e nei regimi illiberali gli avvocati sono protagonisti di veri e propri atti di eroismo. Eppure, senza tema di smentita, posso affermare che anche gli avvocati italiani sono da anni, da decenni, nel mirino di chi ha costruito una trama, un racconto basato su una costante delegittimazione del diritto di difesa. Siamo di fronte a una costruzione narrativa brutale e rozza che assimila l’avvocato al reato del suo assistito o a colui che attraverso artifici aiuta il colpevole a farla franca, senza contare che il presunto colpevole è spesso un semplice indagato».

Da remoto ha portato la propria testimonianza l’avvocato colombiano Adil Jose Meléndez Marquez, che si è distinto per il suo lavoro a sostegno delle comunità indigene e contadine vittime in Colombia di trasferimenti forzati e di crimini commessi dai gruppi paramilitari. L’Osservatorio internazionale degli avvocati in pericolo numerose volte ha denunciato e condannato le aggressioni e le minacce di morte subite da Adil Meléndez. «La Colombia – ha commentato Meléndez - è un Paese con una tradizione di violenza che ha vissuto un conflitto le cui origini risalgono alle disuguaglianze e alle esclusioni sociali, politiche ed economiche. Il conflitto armato colombiano non è stato immune dall’intervento straniero. Infatti, l’aggravarsi del conflitto, il suo prolungarsi nel tempo e le gravi violazioni dei diritti umani sono dovute, tra gli altri fattori, all’attuazione da parte dello Stato della “dottrina della sicurezza nazionale”. Una teoria attraverso la quale coloro che per ragioni politiche erano considerati nemici dello Stato potevano essere perseguitati, processati e assassinati. Dottrine di questo genere hanno dato origine a gravi violazioni che proseguono». I dati richiamati da Meléndez sono spaventosi: oltre 9 milioni di morti e più di 110 mila persone scomparse.

«Amministrare la giustizia ed esercitare responsabilmente la professione forense – ha concluso l’avvocato colombiano - costituisce un’attività ad alto rischio. Tuttavia, la resilienza che ci contraddistingue, grazie anche al sostegno della comunità internazionale, nonostante i rischi che affrontiamo ogni giorno, ha fatto sì che il nostro impegno in favore dello Stato di diritto possa continuare con convinzione».