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Dal 2017 l’assicurazione professionale è obbligatoria per gli avvocati. Un passo pensato per tutelare sia il professionista che la parte assistita, un passaggio che ha garantito e garantisce serenità ma, nel contempo è fonte di dubbi ed ansie al momento della scelta della polizza.
Il problema non è l’obbligo in sé, ma le condizioni del mercato: oggi dominato dalle polizze “claims made”, con la conseguente scomparsa delle “loss occurrence”. Un cambiamento che ha costretto gli avvocati a fare i conti con i cosiddetti “vuoti di copertura”, un concetto ormai familiare ma tutt’altro che rassicurante. La differenza fra le due tipologie di polizza è sostanziale. Nella loss occurrence – letteralmente “a insorgenza del danno” – il sinistro coincide con l’evento che ha generato il danno. L’avvocato è coperto se al momento del fatto aveva una polizza attiva, a prescindere da quando il cliente o il terzo avanzerà la richiesta di risarcimento. La copertura, quindi, è semplice: basta che al momento dell’attività professionale si sia assicurati.
Con le claims made la logica si ribalta. Qui il sinistro non è l’evento che ha creato il danno, ma la ricezione della richiesta di risarcimento. Per essere coperti, l’avvocato deve avere una polizza attiva proprio quando arriva la domanda del danneggiato, anche se l’errore risale a molti anni prima. Da qui nascono i vuoti di copertura: periodi in cui l’avvocato resta esposto perché non coperto da alcuna garanzia.
In realtà, le polizze in circolazione non sono quasi mai claims made pure, ma versioni “miste”, che introducono due correttivi: retroattività e ultrattività. La prima è il periodo che precede la stipula durante il quale deve essersi verificato il fatto generatore della richiesta; la seconda è il periodo successivo alla cessazione della copertura in cui, al verificarsi di condizioni precise (morte, cessazione attività, richiesta dell’assicurato), la compagnia si impegna a intervenire. Una protezione, certo, ma non sufficiente a cancellare le insidie legate alla gestione dei cosiddetti “fatti noti”.
Il nodo dei “fatti noti” è il vero tallone d’Achille delle claims made. L’assicurato è infatti tenuto a comunicare ogni circostanza che possa far presumere il rischio di una futura richiesta risarcitoria. Se non lo fa, la compagnia potrà negare la copertura, sostenendo che il fatto era noto già al momento della stipula. Il problema si acuisce nei cosiddetti sinistri “lungo latenti”: quelli che emergono dopo anni, come un errore commesso in fase iniziale di un processo e contestato solo dopo la sentenza di Cassazione. In questi casi, stabilire se il fatto fosse davvero noto diventa questione cruciale: se lo era, la polizza non copre; se non lo era, la compagnia dovrebbe intervenire.
A complicare il quadro, manca una disciplina legislativa organica delle claims made. Il legislatore si è limitato a fissare alcuni requisiti minimi, senza fornire regole generali. Per gli avvocati il riferimento è il decreto ministeriale 22 settembre 2016, che ha previsto la copertura degli errori dei collaboratori, delle responsabilità solidali e della custodia di titoli e denaro, introducendo anche due importanti garanzie: retroattività illimitata e ultrattività decennale. Un passo avanti, ma ancora insufficiente. Il decreto non affronta infatti il nodo dell’obbligo di informazione, particolarmente delicato per chi esercita la professione forense: nell’attività contenziosa è quasi inevitabile che l’operato dell’avvocato sia contestato dall’avversario, rendendo arduo distinguere tra semplici eccezioni di parte e veri “fatti noti” idonei a escludere la copertura.
Nemmeno la giurisprudenza è intervenuta a sciogliere il rebus. I giudici si sono limitati a legittimare l’uso delle claims made, purché la copertura non sia ridotta al punto da svuotare la causa tipica del contratto di assicurazione. Una soglia minima che lascia ampio spazio all’autonomia contrattuale, e dunque al potere delle compagnie di scrivere clausole penalizzanti per i professionisti. Non a caso, le polizze più diffuse contengono
definizioni ampie di “circostanza” e “fatto noto”, tali da rischiare di lasciare scoperti gli avvocati proprio nelle situazioni più frequenti. Si pensi alla clausola che definisce circostanza “qualsiasi fatto di cui l’assicurato sia a conoscenza e che possa ragionevolmente dar luogo a una richiesta di risarcimento”: una formula standard in altri settori, ma difficilmente compatibile con il contenzioso, dove le contestazioni sull’operato del legale sono la regola fin dal primo atto di giudizio.
In questo scenario, il singolo avvocato ha poche armi. Negoziare condizioni migliori richiede competenze tecniche e forza contrattuale: entrambe difficili da esercitare individualmente. Ed è qui che entra in gioco l’iniziativa del Consiglio Nazionale Forense. Il Cnf ha lavorato a una convenzione assicurativa non limitata a spuntare premi più bassi, ma volta a costruire una polizza realmente adatta alle esigenze della categoria. Tra i risultati: ultrattività illimitata, definizioni più garantiste di “fatto noto”, introduzione della deeming clause e copertura anche in caso di cambiamenti nella forma di esercizio della professione (ad esempio passaggio da studio individuale a società).
Il risultato è un prodotto che ha già risolto molti dei problemi più sentiti dalla categoria. Ma, soprattutto, è la dimostrazione che solo facendo massa critica e sfruttando il potere contrattuale di migliaia di iscritti si possono ottenere sul mercato condizioni più eque. La polizza del Cnf non rappresenta un traguardo definitivo, ma il punto di partenza per un percorso di progressivo rafforzamento delle tutele assicurative degli avvocati, con gli ulteriori benefici, dati da una polizza collettiva, con una gestione centralizzata dei sinistri con una gestione del contenzioso, rimessa a specialisti del settore, attività funzionali per la miglioro conoscenza del rischio per ottenere condizioni economiche ancora migliori dal mercato assicurativo.