Non c’era molto spazio per la giustizia, certo. E il poco che Giorgia Meloni ha trovato nel suo discorso è stato corredato da flash, da accenni in qualche caso poco rassicuranti, come sul carcere. La premier parte dalla «certezza della pena», che è un «principio basilare». E traduce il concetto con una logica dall’eco quasi bonafediana: «È indegno di un paese civile che dall’inizio dell’anno vi siano stati 71 suicidi in cella», scempio che va stroncato con un «nuovo piano carceri». Vecchia idea della cultura “general-preventiva”, per non dire giustizialista: all’indecenza delle condizioni disumane dei reclusi si risponde con più spazi per rinchiuderli, non con le misure alternative. E Meloni si associa a quel filone pochi minuti prima che, da via Arenula, il suo guardasigilli Carlo Nordio diffonda una nota in cui ribadisce più volte che «la pena non è solo carcere». Non c’è solo questo, ma il resto è richiamato solo per titoli. La doverosa premessa sulla «legalità» come «stella polare», e la sfida al «cancro mafioso» da affrontare «a testa alta», con «disprezzo e inflessibilità». L’inevitabile passaggio sulla «durata ragionevole dei processi», che è anche «una questione di crescita economica». L’altrettanto doveroso e rapido accenno alla «effettiva parità tra accusa e difesa». L’evocativo ma per ora indefinito richiamo alla «riforma dell’ordinamento giudiziario» che deve «mettere fine alle logiche correntizie». E poi forse il solo paragrafetto che apre qualche spiraglio di ambizione vera sulla giustizia, la necessità che vi siano «meno regole ma chiare per tutti», perché dietro l’eccesso e l’ingorgo normativo germoglia «anche la corruzione», male da «estirpare». Non è un caso se appena Meloni finisce di scandire quel passaggio, sia proprio Nordio a far partire l’applauso (e il ministro ci teneva a rivolgerglielo, visto che aveva già sentito il capo del suo governo dire «finiamo alle tre» per le troppe interruzioni entusiastiche). La neopresidente del Consiglio insomma dà l’impressione di essere un po’ inchiodata, in materia di giustizia, su un programma e un orizzonte da destra legge e ordine, non dissimile dalla piattaforma di opposizione appena dismessa. Non è un dato definitivo, tenuto conto che in un discorso di un’ora e dieci, lo spazio dedicato ai temi del processo, della magistratura, dei tribunali sovraccarichi e spopolati di personale è stato limitatissimo, quasi marginale. E che, insomma, è mancata un’articolazione in grado di far capire cosa davvero la premier intenda fare in quell’ambito. Ma non è un caso se la reazione più entusiastica, tra gli stessi alleati, sia arrivata da un leghista, Jacopo Morrone, assolutamente d’accordo sul fatto che «il sovraffollamento dei penitenziari non si può risolvere puntando solo sulla riduzione del numero dei detenuti» giacché «si rischierebbe un affievolimento della repressione». Meloni ipotizza ampie convergenze sull’ergastolo ostativo, che M5S e Pd intendono disciplinare in senso ultrarestrittivo. È una linea che contraddice un po’ la scelta, come guardasigilli, di una figura dello spessore e della cultura garantista di Nordio. Se ci si deve basare sulle linee programmatiche, c’è solo da sperare che il ministro riesca a convincere la premier su quel mantra da lui stesso ripetuto stamattina: «La certezza della pena non deve necessariamente coincidere con il carcere». Da una parte, si può dare per certo che il guardasigilli non starà lì a contemplare gli austeri arredi di via Arenula. Dall’altra si conferma l’impressione che, nel pieno di una crisi «mai così sfavorevole dal secondo dopoguerra», come ha ricordato Meloni, le riforme del processo, le istanze garantiste siano per ora strozzate dalle emergenze. Oltre che dal ministro della Giustizia, l’equilibrio dipenderà anche dagli alleati, ma soprattutto da Forza Italia. Un po’ lo ha lasciato intendere per esempio l’azzurro Giorgio Mulè, che ha ricordato tra l’altro come la «separazione delle carriere» sia «scolpita nel programma». Potrà pesare l’asse garantista che potrebbe crearsi fra berlusconiani e Terzo polo. E tornare utile il contributo di un viceministro che gestirebbe i dossier con la competenza di chi li ha avviati nell’ultimo anno e mezzo, come l’azzurro Francesco Paolo Sisto. Peserà anche il contributo dell’avvocatura, che reclama più ascolto e partecipazione nelle scelte sulla vita dei tribunali, e novità, in campo penale, sia sulle carriere dei magistrati che sul carcere. E poi servirà tempo, a Meloni, per rendersi conto della complessità di una materia che per forza di cose non può conoscere in tutte le sue angolature. Oggi ha detto che si deve intervenire anche sulla giustizia minorile affinché «non ci siano mai più casi come Bibbiano». In realtà la riforma civile di Cartabia ha introdotto un’uniformità dei riti, in ambito familiaristico, che è già la giusta premessa per arginare le distorsioni. La presidente del Consiglio ha ricordato che gli autonomi, liberi professionisti inclusi, «non saranno più figli di un dio minore», che rappresentano «un asse portante» del paese e che meritano «tutele adeguate». Si può dare per certa la sincerità di Meloni, anche su questo, e però la premier potrebbe accorgersi presto che, tra le libere professioni, l’avvocatura ha sulla giustizia idee piuttosto diverse da quelle accennate nella relazione introduttiva di ieri. E riconoscere dignità ai professionisti, e innanzitutto alla professione forense, potrebbe voler dire anche avere la forza, su molti punti, a cominciare dalle carceri, di cambiare idea e rivedere un po’ l’agenda del governo.