La gatta da pelare toccherà al prossimo governo e non sarà un micetto ma un leone di montagna. «L'inverno sarà difficile», ha ammesso due giorni fa il commissario all'Economia europeo Paolo Gentiloni ma c'è il caso che si tratti di un eufemismo o di un esercizio di understatement. La crisi già drammatica promette di peggiorare e non solo per le conseguenze inflattive di un rincaro dell'energia che deriva solo in parte dalla guerra ucraina.

Nel board della Bce, mercoledì scorso, hanno vinto i falchi. Il rialzo dei tassi sarà di 75 punti base, un record da quando è nato l'euro. Non è il primo, essendocene stato un altro di 50 punti appena pochi mesi fa, e non sarà l'ultimo. La Bce promette infatti nuovi rialzi a breve. Quanto efficace possa essere la stretta finanziaria sul costo del denaro contro un'inflazione che è in larga misura, pur se non esclusivamente, dovuta al costo dell'energia e delle materie prime è un incognita da verificare. Ma lo è anche la portata dell'effetto recessivo su un'economia fragile come quella italiana. Il tetto sul prezzo del gas, considerato sin qui una specie di bacchetta magica, avrà invece effetti limitati soprattutto se, come da attuale orientamento, riguarderà solo il prezzo del gas russo. Sarà in questo caso una mossa bellica ma con ricadute contenute sui prezzi di quel 91 per cento del fabbisogno che la Ue importa da Paesi diversi dalla Russia.

In questa situazione, Draghi ha deciso di lasciare la palla avvelenata ai successori. In parte il premier non può fare altro, essendo il suo un governo a pochi giorni dalla scadenza. In parte però i margini molto ampi lasciati da Mattarella avrebbero permesso di fare qualcosa in più che il premier uscente ha preferito evitare perché convinto che lo scostamento di bilancio necessario per una terapia d'urto significherebbe lanciare un pericoloso segnale di debolezza. Ma forse anche perché ritiene che la responsabilità di prendere decisioni difficili e rischiose non spetta più a lui. A maggior ragione sospettando, probabilmente a ragion veduta, che i partiti contassero proprio sul suo governo in uscita per addossare sulle sue spalle le responsabilità di quelle scelte.

È comprensibile. Però è anche vero che la situazione reclama interventi decisi e il decreto che il governo si accinge a varare sarà un pannicello caldo. Il canto del papero al posto di quello del cigno. La cifra a disposizione è ancora ignota. Gli ottimisti parlano di 13 mld, i pessimisti di 10. Sarebbero pochi nell'uno e nell'altro caso. Per ora la variazione di bilancio approvata dal Cdm e che dovrà essere ora votata a maggioranza qualificata dal Parlamento è di 6,2 mld, che costituiscono il grosso del fondo per il prossimo dl, come ha chiarito palazzo Chigi. Significa che già arrivare a 12- 13 mld sarà difficile.

Con una copertura così esigua il decreto potrà prolungare il credito d'imposta ma non innalzarlo rispetto all'attuale 25 per cento e persino secondo Letta sarebbe invece necessario un raddoppio. Persino misure minime come la cassa integrazione scontata e la rateizzazione delle bollette sono in bilico, per non parlare di misure shock come l'innalzamento drastico della tassa sugli exprofitti energetici, dove basterebbe volontà politica non essendoci problema di copertura ma trattandosi anzi di fondi che entrerebbero e permetterebbero maggiore libertà di movimento negli aiuti. Se poi si considera che la crisi tocca famiglie e imprese e che se per queste ultime ci sarà poco le prime saranno quasi del tutto ignorate si chiarisce perché non agire ora significhi non evitare ma rimandare scelte drastiche che si imporranno d'autorità nei prossimi mesi.

La stessa strategia energetica dipenderà dalla determinazione e rapidità della prossima maggioranza. Il governo ha scommesso tutto sui maxi rigassificatori di Piombino e Ravenna, col primo che dovrebbe entrare in funzione entro pochi mesi. Con la popolazione di Piombino drasticamente contraria non sarà facile. Tanto più che è probabilmente illusorio pensare che il prossimo governo possa nascere e superare la fase di rodaggio in poche settimane. Insomma quella di sfidare le urne proprio in questo momento rischia di rivelarsi davvero una responsabilità pesante. Che ricade però non sulle spalle del solo Conte ma dell'intero sistema politico perché tutti hanno contribuito attivamente all'esplosione, nessuno escluso. Proprio nessuno: nemmeno Mario Draghi.