In un editoriale sul Corriere della sera, lunedì scorso, Sabino Cassese ha proposto una diagnosi impietosa sul sistema politico italiano: ha parlato di «agonia» dei partiti e di «recessione democratica». Due autorevoli analisti, Giovanni Guzzetta e Fabrizio Cicchitto (a questo link), intervengono sulla questione e offrono la loro lettura.   Proprio nel momento in cui i partiti esercitano il massimo del proprio potere, componendo le liste elettorali e decidendo il destino di migliaia di aspiranti parlamentari, Sabino Cassese, da par suo, ha messo i piedi nel piatto. Sulle colonne del Corriere della sera ha indicato il paradosso della politica italiana. Ricostruendo l’evoluzione del ruolo dei partiti nella storia repubblicana, il paradosso emerge in tutta la sua drammatica chiarezza: mentre oggi il potere dei partiti è massimo, il loro status democratico è invece al minimo storico. Lo è quanto a credibilità agli occhi dell’opinione pubblica, quanto a radicamento tra i cittadini, quanto a identità programmatica e meccanismi di democrazia interna.La crisi dei partiti non è solo un fenomeno italiano. E’ almeno dagli anni ’70 del secolo scorso che gli studiosi (Rokkan, Crewe, Sarlvik and Alt, Selle, Daalder, Whiteley, Chiaramonte , Emanuele) hanno messo in evidenza il loro declino e la c.d. “deistituzionalizzazione” dei partiti, dovuta alla crisi delle ideologie politiche e all’automatizzarsi della società rispetto alla sfera politica. Ma come spesso accade, fenomeni anche generali vivono in Italia una sorte molto particolare, segnata da manifestazioni estreme, di cui la particolare radicalità dell’ondata populista (anch’essa di per sé fenomeno generale nel mondo) è solo uno dei segnali. La specialità del caso italiano è dovuta a varie ragioni, ma due prevalgono sulle altre. Innanzitutto fin dalle origini della Repubblica, si è manifestata una ostinata contrarietà a qualsiasi forma di controllo interno alla vita dei partiti. I tentativi di costituenti come Moro e Mortati perché la nostra Carta prevedesse con chiarezza un’organizzazione interna democratica dei partiti, fu osteggiata ferocemente, soprattutto dai partiti del fronte popolare e dal PCI. Togliatti, ad esempio, arrivò a dire che meccanismi di controllo del rispetto delle regole interne dei partiti da parte della magistratura o della stessa Corte costituzionale avrebbero potuto “fornire il pretesto a misure antidemocratiche”. Lo status dei partiti in Italia, per molto tempo, si è dunque sviluppato secondo l’idea che essi godessero di una sorta di extraterritorialità, sottratta alle verifiche di legalità generale. E’ chiaro che in un contesto del genere mancassero gli stessi presupposti per una loro autentica democratizzazione. La seconda peculiarità, tutta italiana, consiste nel fatto che, solo da noi, l’intera impalcatura dei processi politico-istituzionali si sia fondata esclusivamente sul ruolo dei partiti e sui loro reciproci rapporti e compromessi. I costituenti scelsero deliberatamente (e all’epoca condivisibilmente) una forma di governo debole affidata esclusivamente al gioco dei partiti, preferendo il rischio di crisi continue piuttosto che l’obiettivo della stabilità. Scarsamente o per nulla responsabilizzate al proprio interno, a causa dell’assenza di meccanismi di democratizzazione efficaci, invocabili dagli iscritti, e del tutto libere da meccanismi istituzionali che le rendessero responsabili, di fronte agli elettori, di stabilità e governabilità, le forze politiche si sono, così, evolute nella totale libertà, per non dire anarchia. Il fenomeno, le cui patologie erano già state denunciate durante la prima repubblica (con le invettive di Giuseppe Maranini contro la “partitocrazia”), era comunque, all’epoca, arginato dall’esistenza di tradizioni partitiche radicate, dalla forte struttura organizzativa e ideologica, assistite da un grande consenso popolare (come ricorda Cassese). Venuto meno il contesto dell’epoca e una volta iniziato il declino dei partiti in tutto il mondo, l’italia si è ritrovata più scoperta degli altri. Il sistema politico fondato sull’unica spina dorsale costituita dei partiti ha risentito più degli altri della crisi di questi. E, in assenza di alternative per assicurare il buon funzionamento delle istituzioni (una adeguata riforma istituzionale), è rimasta solo la progressiva degenerazione, che ci consegna forze politiche sempre più “improvvisate”, oscillanti, verticalizzate intorno a leadership che durano lo spazio di un mattino. Ma pensare di rimettere indietro le lancette della storia e tornare a un’ipotetica età dell’oro sarebbe altrettanto velleitario. Anche perché si tratta, come si diceva, di trasformazioni storiche che tutti i paesi hanno sperimentato e, soprattutto, perché la propensione all’autoriforma spontanea o gli inviti al sussulto morale delle élites di partito è ormai solo un alibi per evitare di interrogarsi su altre soluzioni. La verità è che la nostra democrazia, assai più di altre, è ormai avvitata in una spirale oligarchica, in cui ogni fase dei processi politici è gestita dalla ferrea mano delle élites. Lo è nella fase pre-lettorale con i meccanismi di composizione delle liste in cui regna la logica della cooptazione. Lo è nella fase post-elettorale, nella quale le stesse dirigenze dei partiti rivendicano mani libere nella scelta delle alleanze post-elettorali (anche più d’una e diversa durante la legislatura), indipendentemente dalle roboanti enunciazioni fatte in campagna elettorale.Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Ed è sintomatico che, anche in questa campagna elettorale, la principale occupazione di chi teme un risultato negativo sia quella di lavorare per destrutturare l’alleanza degli avversari e la principale preoccupazione di chi si augura di vincere le elezioni sia quella di come riuscire a durare più di qualche mese. Di fronte alla radicalità di questa crisi, messa in ombra solo dalla trance agonistica di una campagna elettorale urlata e rancorosa, non ci sono soluzioni semplici. Anzi, vi un evidente interesse di molte forze politiche a conservare lo status quo. Che assicura un ruolo nel tumulto delle crisi continue, garantendo, comunque, a ditte e scialuppe una possibilità di sopravvivenza e un giro di giostra. Se veramente si volessero affrontare i problemi, non nell’interesse dei professionisti della sopravvivenza, ma nell’interesse di un paese che meriterebbe un sistema politico all’altezza del suo ruolo di media potenza mondiale, si dovrebbe fare ben altro. Riaprendo il cantiere delle riforme, con soluzioni coraggiose e non gattopardesche. Il fatto che la campagna elettorale abbia tra i propri temi principali quello dell’allarme per la democrazia e sia infarcita di parole d’ordine come la difesa dell’assetto istituzionale così com’è, ammantato della retorica sulla “costituzione più bella del mondo” (che peraltro non ne è ha impedito, in questi decenni, un costante tradimento occulto), non lascia ben sperare. Se di riforme si parlerà mai è certo che ciò accadrà all’insegna dello scontro ideologico, dell’utilizzo elettoralistico degli argomenti e del tentativo di delegittimazione degli avversari. Com’è sempre accaduto purtroppo. Alcuni invocano, condivisibilmente, un’assemblea costituente. Il problema di una prospettiva costituente, però, è trovarne lo spirito. E di quello non se ne vede traccia.