In un editoriale sul Corriere della sera, lunedì scorso, Sabino Cassese ha proposto una diagnosi impietosa sul sistema politico italiano: ha parlato di «agonia» dei partiti e di «recessione democratica». Due autorevoli analisti, Fabrizio Cicchitto e Giovanni Guzzetta (a questo link), intervengono sulla questione e offrono la loro lettura.   Partiamo da un dato di fondo, riguardante quella che a nostro avviso è l’essenza di una democrazia fondata su elezioni nazionali, regionali, locali, su un governo espressione del Parlamento e su un presidente della Repubblica. Questa democrazia si fonda sulla pluralità, sul confronto, sullo scontro delle opinioni e degli interessi (a loro volta organizzati in sindacati, in una molteplicità di associazioni di categorie imprenditoriali e nella Confindustria). Ciò come premessa abbastanza teorica e astratta. Ciò detto passiamo appunto dall’astratto al concreto. I partiti, pur fra mille difetti, hanno avuto fino all’inizio degli anni Novanta un’intensa vita democratica al loro interno. C’è un articolo della Costituzione mai attuato, l’articolo 49, che collegava il potere dei partiti alla loro vita democratica. La mancata attuazione di quest’articolo ha comunque pesato negativamente nel corso di tutti questi anni con una accentuazione finale. In Italia lo scontro politico fra i partiti aveva ragioni interne e internazionali. Per molti aspetti esso si fondava sulla divisione del mondo in due blocchi. I due partiti più forti, cioè la Dc e il Pci, facevano esplicito riferimento rispettivamente all’Usa e all’Urss, con una successiva variante riguardante l’Europa. Per dirla fino in fondo, il finanziamento irregolare dei partiti faceva largamente riferimento a questa divisione ed esso ha fatto parte – lo scriviamo per sfidare gli ipocriti – della Costituzione materiale del Paese. Tant’è che fino ai primi anni Novanta nessuno, né la magistratura né tantomeno i giornali, hanno mai preso in considerazione le denunce che pure provenivano da personalità assai significative come Don Sturzo ed Ernesto Rossi. Tutto ciò è andato avanti fino al 1989-91 (data del crollo del Muro di Berlino e della fine dell’Urss) e poi ha avuto il suo colpo fondamentale in Mani pulite-Tangentopoli nel 92-94. Per molti aspetti Mani pulite è stata fondata su una selvaggia demonizzazione dei partiti, considerati il centro di ogni corruzione (siccome i poteri economici che erano l’altro lato dei meccanismi di finanziamento irregolare e di corruzione controllavano i giornali ed ebbero un trattamento di riguardo proprio dal pool dei pm di Milano, passarono per vittime della concussione da parte dei dirigenti dei partiti: vale la pena rileggere le lettere-confessione-genuflessione scritte, con una grande faccia di bronzo, da Romiti e da De Benedetti per avere il senso della mistificazione che allora fu fatta. Addirittura Romiti ebbe la faccia tosta di fare la sua confessione davanti a un cardinale Martini che assai graziosamente si lasciò prendere per i fondelli). Poi, da quella damnatio, grazie alla gestione del tutto unilaterale di Mani pulite, si salvarono solo il Pds di Occhetto, D’Alema e Veltroni con la consulenza tecnica di Violante. Quel Pds era certo di conquistare in questo modo quasi tutto il potere senonché nel 93-94 Silvio Berlusconi vide che c’era lo spazio per rappresentare l’Italia moderata e centrista e così fondò Forza Italia. Ma da lì derivò anche la personalizzazione della politica con la formazione di partiti personali (non fu solo Forza Italia). Così in quegli anni si arrivò a un anomalo bipolarismo del tutto diverso da quello esistente in Europa. Nel Vecchio Continente la dialettica bipolare era fondata sul confronto fra due forze che insieme si scontravano e si riconoscevano: un forte partito conservatore e un grande partito socialdemocratico. Nulla di tutto ciò in Italia, dove almeno fino al 2013 lo scontro è stato durissimo fra una coalizione antiberlusconiana, che aveva come punta di diamante una parte della magistratura e l’obiettivo di distruggere Berlusconi, e una coalizione berlusconiana che aveva come strumento le televisioni e la forza finanziaria del Cavaliere. Quindi gli strumenti atipici erano attivi da entrambe le parti: per il Pds e la sinistra democristiana era in campo una parte della magistratura, per Berlusconi invece la sua potenza mediatica e finanziaria. Tutto ciò spiega che, paradossalmente, in questi ultimi anni, tra l’Italia e il resto dell’Europa il peso dei partiti si è rovesciato: nel resto dell’Europa la dialettica politica si fonda su partiti abbastanza consistenti, nel nostro Paese invece è dominata da effimeri partiti personali e da un paio di partiti tradizionali (il Pd e Fratelli d’Italia). Per di più, a ridurre ulteriormente la partecipazione della gente alla politica c’è stata un’altra operazione di cui, forse per pudore, adesso si parla poco. Prima dell’attuale e pessimo Rosatellum, a dominare la scena è stato il Porcellum. Per capire bene le ragioni dell’involuzione bisogna ricostruire le origini di questo strano animale. Il Porcellum è nato in Toscana, una regione dominata da un forte Pci-Pds con Forza Italia, allora guidata con mano ferrea da Denis Verdini, che svolgeva il ruolo di opposizione privilegiata. A un certo punto le due oligarchie regionali si accordarono si un sistema elettorale che consegnava ad esse tutto il potere tagliando fuori eventuali opposizioni interne ai partiti. Quel sistema elettorale infatti affidava l’elezione dei consiglieri regionali all’ordine di lista definito dalle segreterie dei partiti. Berlusconi fu entusiasta di questo sistema elettorale e quando Verdini divenne uno dei massimi dirigenti nazionali di Forza Italia ebbe l’incarico di farlo passare come sistema che regolava le elezioni nazionali. Le altre formazioni del centrodestra accettarono con soddisfazione questa proposta mentre il Pds fece finta di essere contrario ma in effetti la subì seguendo un singolare motto latino (di stampo in accettabilmente maschilista): vis grata puellae. Questo sistema, combinato con la crisi ideologica, strutturale e giudiziaria dei partiti, ha inferto il colpo di grazia finale alla partecipazione della gente alla dialettica elettorale facendo venir meno anche quella ricerca del consenso di base costituito dalle preferenze. Concludiamo avendola fatta troppo lunga. Per superare l’attuale collasso dei partiti (vedremo con grande interesse il livello di assenteismo che caratterizzerà le elezioni del 25 settembre) a nostro avviso dovrebbe esserci da un lato un rilancio di posizioni ideali e politiche differenziate rispetto sia alla crisi del Pd sia anche a quella di diverso tipo del centrodestra. In questo quadro la nostra opzione personale è fondata sulla speranza che l’incontro fra Calenda e Renzi dia vita a un nuovo soggetto politico dei riformisti, liberali, cattolici e socialisti (invece a nostro avviso non ha alcuna prospettiva la collocazione realizzata in queste elezioni dei socialisti appiattiti sul Pd). Ma, a parte questa opinabile opzione, ci auguriamo che i guasti micidiali prodotti dal Rosatellum e dal taglio dei parlamentari (subito dal Pd pur di riconquistare il potere perduto attraverso il Conte2) porti, dopo queste inquietanti elezioni, a una riforma assai semplice: il ritorno al proporzionale, con sbarramento al 3%, e alle preferenze. Il rischio è che se non si riparte da qui andremo incontro a una totale disintegrazione del sistema politico italiano e all’affermazione di una guerra per bande guidate da capitani di ventura. Per capirci, il modello può essere la generalizzazione della “Bestia” messa in campo a suo tempo da Salvini e Morisi. Insomma, passeremmo dalla Repubblica dei partiti descritta da Scoppola alla guerra per bestie che attende il suo storico.