Ciò che è accaduto a Milano nel processo di appello Eni ha pochi precedenti, sia per la scelta tecnica adottata dal procuratore generale di addirittura rinunziare all’appello proposto dalla Procura contro la sentenza assolutoria, sia per toni e motivazioni di questa decisione. Spieghiamo intanto ai non addetti ai lavori. Nel nostro sistema il pubblico ministero che non condivida la sentenza pronunciata dal giudice di primo grado può impugnarla con atto scritto, al pari del difensore. Ne scaturisce un secondo giudizio avanti la Corte di Appello, nel quale l’accusa sarà però sostenuta dall’ufficio di accusa di grado superiore, cioè la procura generale (salvo la eccezionale richiesta, che va motivata ed accolta, del pm di primo grado di patrocinare personalmente anche in appello). Nella larghissima maggioranza dei casi la procura generale sostiene senza riserve l’appello proposta dalla procura, pur non essendo vincolata a farlo. Può dunque accadere che nella discussione il procuratore generale, in totale autonomia, esprima dissenso, in tutto o in parte, dalla impugnazione dell’accusa, concludendo di conseguenza: sarà poi la Corte di Appello a decidere in un senso o nell’altro. Ma il nostro codice prevede anche una soluzione più estrema: il procuratore generale può addirittura rinunziare ai motivi proposti dal pubblico ministero del primo grado; decisione questa che sottrae alla Corte di Appello la stessa possibilità di pronunciarsi. Comprendete bene dunque il significato estremo di una simile decisione, infatti di natura decisamente eccezionale nella prassi giudiziaria. La valutazione negativa da parte del titolare dell’ufficio dell’accusa in appello della impugnazione proposta dal pm del primo grado è talmente drastica, da indurlo a revocarne gli effetti, rendendo definitiva la sentenza di primo grado senza che la Corte di appello possa dire o fare alcunché. Ed è proprio questo che è accaduto nel processo Eni. La durezza inedita delle argomentazioni con le quali la procura generale ha motivato una scelta di tale forza danno la esatta misura della gravità di questa scelta. Sono parole che colpiscono per la loro inequivocità, e per la importanza quasi drammatica dei fondamentali principi di diritto che essa ha ritenuto di dover evocare. Esse descrivono un appello frutto di una ostinazione accusatoria priva di ogni seppur minimo supporto probatorio, espressione di una idea proprietaria dell’esercizio dell’azione penale, in spregio della inviolabile regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio e soprattutto in spregio della vita, della dignità, delle sorti di imputati tenuti al laccio di un’accusa fumosa e cervellotica da quasi due lustri. Per non dire dell’ipoteca intollerabile sulla credibilità e sulla operatività di una azienda strategica per l’economia nazionale. Parole ammirevoli e coraggiose, espressione di un solido radicamento nel quadro costituzionale dei valori del giusto processo, che salutiamo con ammirazione, senza cedere alla tentazione di letture in controluce su equilibri di potere interni agli uffici giudiziari milanesi, tanto plausibili quanto indimostrabili. Ma proprio questa vicenda può essere l’occasione per rilanciare una riflessione pacata e costruttiva sul più generale tema della compatibilità tra i principi del giusto processo ed il permanere del potere di impugnazione delle sentenze assolutorie da parte del pubblico ministero. Non a caso la Commissione Lattanzi aveva rilanciato l’idea di eliminarla, rimettendo mano in sostanza alla riforma Pecorella, ma tenendo conto delle ragioni per le quali la Corte costituzionale ne aveva decretato l’abrogazione. La magistratura italiana insorge, ma la verità è che una sentenza assolutoria, ancorché riformata in appello, sarà sempre di per sé bastevole a radicare il dubbio sulla penale responsabilità dell’imputato. E per il nostro sistema costituzionale e codicistico, l’unica ragione (per fortuna!) che dia senso a successivi gradi di giudizio è il dubbio che l’imputato condannato sia innocente, non che l’imputato assolto sia colpevole. Inoltre, questo indiscriminato diritto di impugnazione dell’accusa ha purtroppo favorito il diffuso radicarsi di una idea dell’azione penale come di una scommessa che il pubblico ministero intenda vincere ad ogni costo, come se la partita in gioco nel processo penale, più che la plausibile ricostruzione di una verità del fatto, sia più spesso la credibilità dell’Ufficio di procura. Ora che le urne ci chiamano a ragionare del Paese che vogliamo nel nostro futuro, anche questa sarà una battaglia di civiltà da rilanciare con grande determinazione.