«Non c’è prova di nessun fatto rilevante in questo processo». Sono veri e propri macigni le parole pronunciate questa mattina dal sostituto procuratore generale di Milano Celeste Gravina, che ha rinunciato all’appello nei confronti dei 15 imputati, 13 persone e le società Eni e Shell, accusati di corruzione internazionale nel processo sulla presunta tangente da 1,092 miliardi di dollari per la concessione da parte del governo della Nigeria dei diritti di esplorazione sul blocco Opl245. Una decisione che arriva dopo l’assoluzione di tutti gli imputati in primo grado pronunciata il 17 marzo 2021 - e ora definitiva -, «perché il fatto non sussiste». Ma la requisitoria di oggi è stata una vera e propria reprimenda nei confronti dell’aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, che dopo l’assoluzione ha presentato appello, nonostante fosse emerso in più occasioni l’assenza di prove e l’inaffidabilità del grande accusatore Vincenzo Armanna, ex vicepresidente di Eni Nigeria. L’intero processo, secondo Gravina, si sarebbe basato solo su «chiacchiere e opinioni generiche», sulla cui base la più grande società italiana è stata tenuta in “ostaggio” e tredici persone sono finite sulla graticola. Ma ogni cittadino, ha ammonito il sostituto procuratore generale, «ha diritto, dopo sette anni e senza che sia stata raggiunta la prova della sua colpevolezza, a veder finire immediatamente il processo». Fra gli imputati figurano l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi (nella foto), il suo predecessore Paolo Scaroni, l’ex ministro del Petrolio della Nigeria, Dan Etete, oltre a quattro ex manager di Shell, ex dirigenti di Eni e alcuni intermediari. Fra questi anche Roberto Casula, ex capo divisione esplorazioni di Eni, Armanna, Ciro Antonio Pagano, all’epoca dei fatti managing director di Nae, Obi Emeka, avvocato che avrebbe fatto da intermediario nell’operazione, e Luigi Bisignani, anch’egli considerato mediatore. Sulla scelta di Gravina ha inciso anche la sentenza assolutoria in abbreviato - e passata in giudicato - nel processo a carico di Emeka e Gianluca Di Nardo, ritenuti dal pm i mediatori della presunta tangente di cui però non ci sono tracce. Il presidente del collegio della seconda sezione penale della Corte di Appello di Milano, Enrico Manzi, «ha preso atto della rinuncia», mettendo dunque una pietra tombale sulla vicenda. Il processo di secondo grado va dunque avanti solo per i soli fini civili per l’appello proposto dal governo federale della Nigeria, parte civile nel processo, rappresentato in aula dall’avvocato Lucio Lucia. «Non c’è prova di nessun fatto rilevante in questo processo - ha affermato Gravina -. Gli imputati hanno diritto di vedere cessare immediatamente questa situazione che in questo momento è contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo, di economia processuale, di durata ragionevole. Il processo non è la sperimentazione della dialettica delle parti» e perciò va messa la parola fine. Anche perché i motivi d'appello presentati da De Pasquale, ha ammonito la pg, «sono incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità». L’aggiunto milanese, ignorando l’esito del processo a carico di Emeka e Di Nardo, «continua a sostenere le sue posizioni come se non ci fosse un'assoluzione passata in giudicato» che stabilisce che i due non sono mai stati collettori «di una tangente destinata» ai pubblici ufficiali nigeriani. «Il pm di questo non se ne accorge» e questa è una violazione delle regole di giudizio». Nell’appello proposto dalla procura mancherebbe «qualsiasi nuovo elemento per sostenere l’accusa» e «per un eventuale ribaltamento del principio dell’oltre ragionevole dubbio», mentre sono presenti profili «incongrui e insufficienti» che restituiscono «diverse ricostruzioni possibili che sono lo specchio dell’assenza di fatti certi posti alla base della accusa e non di un accordo corruttivo che non si indica in alcun modo». Anzi, le vicende sarebbero state «buttate lì come una insinuazione», ha affermato Gravina, arrivando a parlare di «colonialismo della morale» da parte «del pm»: come «le potenze neocoloniali tracciavano i confini senza sapere cosa c'era sotto», De Pasquale avrebbe «imposto» la propria linea, volendo scegliere «al posto di organi democraticamente eletti». Atteggiamento che la procura ha imputato alle due società, che invece «hanno fatto la ricchezza della Nigeria» anche con «tributi di sangue». Il tutto senza riuscire ad individuare le presunte tangenti versate e riparando «sul fatto che questa operazione non doveva farsi». La procura si sarebbe comportata, dunque, come una sorta di «Tribunale amministrativo della Nigeria». Ma in Italia c’è il «diritto delle persone a non subire processi penali quando non vi sono motivi perché si tengano». Gravina ha parlato anche delle «bugie ripetute» di Armanna, dei «suoi ripensamenti» e delle «sue speranze frustrate di impunità». Falsità sulle quali De Pasquale era già stato messo in guardia dal pm Paolo Storari (finito nella bufera per il caso verbali) e stigmatizzate nelle motivazioni della sentenza di assoluzione dal Tribunale di Milano, che aveva ammonito l’aggiunto soprattutto in merito alla gestione delle prove, per la quale la procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio di De Pasquale e Sergio Spadaro. Tra queste prove, il video mai depositato a processo, girato in maniera clandestina dall’avvocato Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha svelato l’esistenza della fantomatica - e smentita - “loggia Ungheria”, che testimoniava un fatto clamoroso: la volontà di Armanna di ricattare i vertici Eni e avviare una devastante campagna mediatica. Proprio per tale motivo, si sarebbe adoperato per «fargli arrivare un avviso di garanzia». E due giorni dopo, come da copione, Armanna si presentò in procura per accusare i vertici della società. Il contenuto del video, per i giudici di primo grado, era di per sé «dirompente in termini di valutazione dell’attendibilità intrinseca perché rivela che Armanna, licenziato dall’Eni un anno prima, aveva cercato di ricattare» la società petrolifera «preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda”» sui suoi dirigenti. Per Paola Severino, legale di Descalzi, «è stata una requisitoria molto penetrante, che ha frantumato completamente l'accusa. La giustizia può essere magari lenta ad arrivare, ma quando arriva deve essere dichiarata immediatamente». Eni, in una nota, ha parlato di «immotivata e sconcertante vicenda giudiziaria penale». «La rinuncia determina che le assoluzioni già pronunciate nel marzo 2021 di Eni e dei suoi manager siano diventate definitive, passando in giudicato. Dopo oltre 8 anni tra indagini e procedimenti giudiziari, cause di altissimi costi e di gravi e ingiuste conseguenze reputazionali per la società e il suo management, la Giustizia ha completato il suo corso confermando in via definitiva la piena assoluzione perché il fatto non sussiste», sottolinea Eni. «Eni e le sue persone, finalmente forti del riconoscimento irrevocabile della correttezza e della legalità del proprio operato, potranno continuare a dedicarsi con sempre maggiore efficacia alle sfide epocali che oggi caratterizzano lo scenario internazionale: sicurezza degli approvvigionamenti, accesso all'energia e percorso verso una transizione energetica equa», conclude la società di San Donato Milanese.