Nella sua replica al mio articolo dell’altro ieri, Walter Verini sostiene che la riforma dell’ergastolo ostativo è valida in quanto sostenuta dalla maggior parte delle forze politiche, e pertanto chi la critica, come il sottoscritto, è come colui che imbocchi contromano l’autostrada imprecando perché tutti viaggiano contromano. Il dubbio che Verini invoca come una virtù dovrebbe indurlo a interrogarsi se la politica, sulle questioni di mafia, non ceda a un conformismo adesivo alle tesi di una retorica egemone, di cui una certa magistratura si fa interprete. Si chiede, Verini, come mai uno dei più autorevoli, rigorosi ed equilibrati studiosi di diritto penale e processuale penale, Giovanni Fiandaca, censuri senza mezze misure la riforma con gli stessi argomenti da me usati? Anche lui viaggia contromano in autostrada, o piuttosto prova quanto è grande la distanza che si è aperta tra la politica e i saperi? Verini cade in una superficialità talvolta addebitata a un certo modo di fare giornalismo: il dubbio che a me suscita la sua replica è che maneggi la complessità della materia con l’atteggiamento di chi vuol far capire agli altri ciò che lui stesso non penetra fino in fondo. Dice per esempio: i tanti ergastolani ostativi che non sono boss di mafia non dovrebbero avere difficoltà a soddisfare le condizioni poste dalla riforma, non avendo avuto e non avendo legami con la criminalità mafiosa. Non sa, l’onorevole, che non tutti i condannati per mafia sono boss? Ci sono nelle carceri italiani quasi mille, dei milleduecentocinquanta condannati all’ergastolo ostativo, che non sono né Riina, né Provenzano, ma detenuti che hanno commesso gravissimi reati di mafia. Il dubbio, che ancora Verini invoca, gli imporrebbe di chiedersi se nei confronti di queste persone valga il principio di rieducazione della pena oppure no. Lui si risponde con un luogo comune della retorica sciorinata dall’ex procuratore Gian Carlo Caselli nella sua audizione in commissione giustizia: il vincolo con l’organizzazione mafiosa scrive Verini - viene meno solo con la morte. Si rende conto, il guardasigilli ombra del Pd, che questo teorema contiene l’idea per cui il mafioso sarà sempre tale, e così pure i figli e i nipoti dei mafiosi? Si chiede se questa idea sia compatibile con le ragioni di un riscatto sociale che da sempre la sinistra s’intesta, o piuttosto con quelle di un cupo determinismo che cristallizza l’emergenza, per giustificarla oltre il suo tempo? Si rende conto, ancora, che cade nel ridicolo quando, arrampicandosi sugli specchi, cede alla tentazione, propria della stessa retorica, di ricordare che “lo diceva anche Falcone”? Onorevole Verini, la smettiamo di tirare per la giacchetta i simboli, fuori tempo e fuori contesto? Se i mafiosi cessano di essere tali solo con la morte, vuol dire che l’articolo 27 della Costituzione, che Verini pure sostiene di promuovere, non vale per tutti. Il mio dubbio è che la riforma sia esattamente questo: una deroga al principio di rieducazione della pena. Lo conferma l’onorevole Verini quando difende l’obbligo per il detenuto di provare «l’esclusione attuale di collegamenti, e del pericolo di ripristino, con la criminalità organizzata e con il contesto nel quale il reato è stato commesso». È quella che io chiamo una prova diabolica. «In cambio della libertà - scrive Verini -, non sarà impossibile dimostrare che gli antichi sodali-complici non ci sono più, perché a loro volta detenuti o morti o pentiti, perché l’organizzazione è stata smantellata, e così via». E se invece, i sodali-complici non sono né morti né pentiti, se l’organizzazione non è stata smantellata, che accade al detenuto dopo trent’anni di carcere? Purtroppo, onorevole Verini, accade quello che vogliono i suoi riferimenti nella magistratura: il fine pena mai, perché la mafia non muore mai. Perché, come dice ancora Caselli, il mafioso non taglierà mai il cordone ombelicale con il suo contesto. Se pure si redime e ha una buona condotta in carcere, sta fingendo. Per questo lo stesso procuratore pretende, e lei conviene, che a decidere della sorte dell’ergastolano non sia il magistrato di sorveglianza ma l’Antimafia, che nulla sa del percorso individuale di redenzione del condannato. Ma che potrà certificare che, siccome la mafia è viva e vegeta nel suo contesto, sarà bene che lui resti in carcere finché morte non giunga. Onorevole Verini, lei scrive di aver visitato gli istituti di pena. Deduco che lei abbia incontrato alcuni ergastolani in regime ostativo. Se lo ha fatto, sa bene che alcuni di loro sono rimasti sì mafiosi, altri, la maggior parte, hanno compiuto un percorso di vita che li ha portati a essere persone del tutto diverse da quelle che commisero trent’anni prima il reato per cui sono dentro. Nessuna storia è uguale a un’altra. Perciò dire che un mafioso non cambia mai è un bugia che disonora l’intelligenza umana. Un magistrato non dovrebbe mai pronunciarla. Meno che mai un uomo di sinistra. Anche chi scrive stima Federico Cafiero de Raho, e gli altri magistrati dai lei citati, per il servizio che hanno reso al Paese. Ma non consegnerebbe mai ai pm una delega surrettizia della funzione legislativa, come una politica debole, di cui lei è espressione, sta facendo in questo momento. Le auguro di avere coraggio.