È stato un anno nuovo per la giustizia. Produttivo. Ricco di aperture su diversi fronti. E in particolare sullo snodo più delicato, il rapporto fra indagini e informazione. Con le nuove norme a tutela della presunzione d’innocenza (decreto legislativo 8 novembre 2021 n. 188) si è aperto un varco nella palude degli ultimi trent’anni, nel pregiudizio giustizialista stratificatosi a partire da Mani pulite. Eppure resta un’ultima fortezza inaccessibile a qualsiasi tentativo di confronto: la legislazione e la teoria dell’antimafia. Un sistema di certezze che non si riesce a scalfire, e che anzi ostacola anche riforme non immediatamente connesse alla repressione del crimine organizzato. Basti pensare all’improcedibilità, il complicato antidoto al blocca-prescrizione di Bonafede.

COSÌ IL DOGMA DELL’ANTIMAFIA HA CAMBIATO PURE L’IMPROCEDIBILITÀ

Quando a fine luglio l’attuale maggioranza sembrava aver trovato un’intesa sul nuovo istituto, che sostituisce la cosiddetta “prescrizione del processo” all’estinzione del reato, ecco il colpo a sorpresa. Il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho e il capo dei pm di Catanzaro Nicola Gratteri paventano il naufragio di gran parte dei giudizi per mafia. Basta la parola: la norma cambia. Viene condita di eccezioni e si trasforma in un groviglio ancora più tortuoso di quanto non fosse già in partenza. Basta consultare l’articolo 2 secondo comma della riforma penale (al secolo, la legge 134 del 2021): oltre tre pagine fitte di Gazzetta ufficiale. Non solo. A riprova che dal timore di urtare i dogmi dell’antimafia siano scaturite le più pesanti contraddizioni di un anno di politiche sulla giustizia, va citata la legge sull’ergastolo ostativo. Con il testo che nelle prossime ore la Camera dovrebbe licenziare in prima lettura, si lancia di fatto una sfida alla Corte costituzionale: quasi si arriva a irridere l’ordinanza 97 del 2021, con cui la Consulta aveva accertato l’illegittimità, pur senza renderla immediatamente efficace, delle norme per cui i condannati all’ergastolo ostativo, essenzialmente i mafiosi, possono accedere alla liberazione condizionale solo attraverso la collaborazione. Con il consueto esemplare spirito di responsabilità e rispetto istituzionale, il giudice delle leggi aveva evitato l’impatto fatale di una pronuncia così dirompente per l’ordinamento, e aveva lasciato al Parlamento un anno di tempo per allestire la piattaforma d’atterraggio del nuovo regime normativo, in modo da consentire ai giudici di Sorveglianza la valutazione del singolo caso senza rischi per la sicurezza. Alla fine i deputati si sono esercitati nel predisporre una selva di norme spesso irragionevoli, che ostacola a tal punto il percorso dell’ergastolano verso il più importante dei benefici, da vanificare quasi la pronuncia. È doveroso riportarsi al magistrale intervento pubblicato sul Foglio di giovedì scorso dal professor Giovanni Fiandaca, che ha disarticolato con impietosa efficacia le contraddizioni del testo.

QUEL RICATTO IMPLACABILE CHE ATTERRISCE I GARANTISTI

E il fatto più rilevante è che, di fronte a una così sfrontata indifferenza alla Costituzione, non si è levata in Parlamento praticamente nessuna di quelle voci garantiste che, nell’intero anno precedente, si erano battute con successo per cambiare il corso della politica giudiziaria. Quando c’è di mezzo la mafia, ci si autoconsegna al silenzio. Si preferisce riparare nell’astensione dal dibattito, nonostante in tutte le altre occasioni si intervenga puntualmente per armonizzare la legislazione penale con lo Stato di diritto. Fa troppa paura il ricatto permanente del fronte giustizialista, politico e togato. Chi osa mostrarsi garantista anche sulla legislazione antimafia viene immediatamente bollato come amico o fiancheggiatore dei boss. Vale la pena ricordare come, sull’ergastolo ostativo, le sole e uniche voci che alla Camera si siano levate fino all’ultimo per denunciare l’incoerenza delle nuove norme siano di due donne e deputate coraggiose: Enza Bruno Bossio del Pd e Lucia Annibali di Italia viva. La prima, in particolare, è rimasta isolata all’interno del proprio partito, che ha invece condiviso con il Movimento 5 Stelle, e portato a casa, diverse modifiche restrittive. L’antimafia, nella sua pretesa intangibilità, è un ricatto. È una roccaforte inespugnabile. Un sistema impossibile o quasi da riformare. È un’arma sempre pronta per respingere avanzamenti del diritto anche su altri versanti, come si è ricordato a proposito della riforma penale. È un pregiudizio, innanzitutto, rispetto a ogni tentativo di riforma penitenziaria. E qui è facile richiamare il caso delle ultime ore: la nomina di Carlo Renoldi, un giudice dopo tanti pm, a capo del Dap. Una scelta sulla quale la guardasigilli Marta Cartabia dovrà sfidare in Consiglio dei ministri l’assoluto dissenso di Lega e Movimento 5 Stelle, dissenso anticipato, nel plenum del Csm, da Nino Di Matteo. Renoldi, ora alla Cassazione ma con una lunga esperienza da giudice di Sorveglianza, ha osato schierarsi troppo nettamente su un’idea di carcere orientata alla rieducazione e al reinserimento sociale, più che alla vendetta. Apriti cielo. Anche e soprattutto perché il magistrato ha esteso ile proprie analisi critiche al 41 bis, il cosiddetto carcere duro concepito per isolare i capimafia. Ecco: ogni “eresia” che incroci il contrasto della criminalità organizzata è la scintilla di un nuovo conflitto, e soprattutto di una nuova scomunica. L’antimafia è un moloch che impedisce di disegnare nuovi modelli di giustizia e di esecuzione penale. E proprio per il suo granitico dogmatismo è ormai un paradigma inadatto rispetto al proprio obiettivo, la repressione delle organizzazioni criminali. Davvero a trent’anni dalla dichiarazione di guerra della mafia stragista possiamo continuare a rispondere con le stessearmi di allora? È possibile tenere in piedi una legislazione di emergenza che pretende di battere la mafia con la rincorsa a remote connessioni familiari, anziché con strumenti tecnologici e normativi commisurati all’evoluzione dei traffici, alle nuove e sofisticate forme di arricchimento illecito? È un interrogativo necessario innanzitutto per il futuro del Mezzogiorno.

LA CIECA E INQUISITORIA LOGICA DELLE MISURE DI PREVENZIONE

In Sicilia, Calabria, Campania il codice antimafia (tecnicamente il decreto legislativo 6 settembre 2011 n. 159, modificato più volte e anche dal decreto Pnrr, il 152/2021) consente sì di rispondere a fenomeni criminali ancora ben radicati, connessi essenzialmente al narcotraffico, ma si ostina pure nel colpire con inflessibile cecità migliaia di imprese, pienamente inserite nel circuito legale, in virtù di parentele, relazioni presunte, sospetti. È il “campo largo” delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, che continuano a mietere vittime innocenti, e che in alcuni contesti –esemplare il caso della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo – hanno finito, negli anni passati, per ridurre in cenere il tessuto produttivo locale. A Caltanissetta è in corso il processo al cosiddetto sistema Saguto, di cui continua ad emergere il ricorso discutibile al cosiddetto “processo di prevenzione”, e di cui vi parla anche la prefazione al libro “Quando prevenire è peggio che punire”, firmata da Sergio D’Elia e riproposta in questo numero del giornale. Adesso il quesito da porsi è se una legislazione antimafia basata sul sospetto, sul doppio binario, su modelli estranei allo Stato di diritto e al giusto processo, non rischi di distrarre le energie di magistratura e forze dell’ordine dall’attuale dimensione dei fenomeni criminali. È un timore, quello di insistere su un bersaglio sbagliato, che in realtà sembra insinuarsi anche nelle analisi dei più alti responsabili delle strategie antimafia. Persino il procuratore nazionale Cafiero de Raho o il pg di Cassazione Giovanni Salvi non mancano di segnalare, nelle proprie relazioni annuali, l’esistenza e l’evoluzione di circuiti illeciti e di traffici assai più sofisticati, alternativi al consueto modello delle cosche. Solo che a tali analisi non segue la richiesta di ristrutturare davvero il codice antimafia. Ci si limita a sostenere che le organizzazioni criminali, assimilabili o meno alla mafia, sono ancora forti, e anzi più ricche e internazionali, e che quindi non si può dismettere nulla del vecchio armamentario repressivo. Ma pur nel pieno rispetto di valutazioni proposte da fonti così autorevoli, permane l’impressione che si esiti a rivedere il codice e le strategie antimafia non perché davvero utili a perseguire gli attuali circuiti internazionali dell’illecito, ma per la soggezione a quel ricatto morale evocato all’inizio. Non si può neppure discutere di 41 bis, di regime penitenziario ostativo, di misure di prevenzione applicate senza contraddittorio, avulse dalla prova formata nel processo. Non si osa mettere in discussione principi investigativi ancora basati sulla ricerca di una lontana sospetta parentela. Non si osa perché in fondo nessuno ha il coraggio di un atto di blasfemia. Nessuno ha voglia di trattare la vecchia antimafia per quello in cui rischia di essersi trasformata: una religione dogmatica, un misto di nostalgia e ricatto, un’eredità della guerra dichiarata a Capaci e via D’Amelio, un plotone pronto a fulminare i presunti disertori. Eppure il nemico di allora è già da decenni rinchiuso al 41 bis o scomparso dalla faccia della terra. In uno Stato che vuol modernizzare, grazie al Recovery, il proprio sistema giustizia, e che potrebbe efficacemente dedicarsi al contrasto dei nuovi sistemi di arricchimento illecito, possiamo davvero permetterci di sprecare tante risorse umane ed economiche nella rincorsa nostalgica alla mafia di trent’anni addietro? Quasi nessuno ha il coraggio di avanzare quell’interrogativo, se non fosse per il presidio garantista del Partito radicale, di Nessuno tocchi Caino, dell’avvocatura e di poche voci dell’accademia, da Giovanni Fiandaca a Salvatore Lupo. Ma un paese che vuole coltivare la speranza di lasciarsi alle spalle la pandemia, e la guerra, non può pensare di restare imprigionato nell’eterno ritorno di un’antimafia sganciata dal tempo.