Magistrato di lungo corso, Silvana Arbia è stata Prosecutor del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda ed ottenne le condanne di alcuni dei principali responsabili del genocidio consumatosi nel 1994 (un milione di persone uccise in 100 giorni di violenze inaudite). Arbia ha scritto qualche anno fa il libro intitolato “Mentre il mondo stava a guardare” (Mondadori) nel quale racconta la sua esperienza al servizio della giustizia internazionale. Per il suo impegno e per i risultati ottenuti in campo giuridico ha ricevuto nel 2016 la Legione d’Onore. «La guerra in Ucraina – dice al Dubbio Arbia – rappresenta una nuova epoca per il diritto internazionale che richiede maggiore partecipazione degli individui e maggior controllo degli stessi sui governi».

Eccellenza, l’attacco russo ai danni dell’Ucraina è una violazione grave del Diritto internazionale. Quali strumenti potranno essere attivati? 

Fondamentalmente due: azione avanti la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) e intervento della Corte penale internazionale (CPI). La natura dell’attacco, la durata, l’estensione e i danni già causati consentono di qualificare l’azione russa quale aggressione armata, di gravità particolare, un caso di “uso della forza” nelle relazioni fra Stati, il cui divieto è un obbligo imperativo di diritto internazionale (jus cogens). Obbligo che incombe sulla Russia, membro dell’ONU e membro permanente del Consiglio di Sicurezza. All’articolo 2(4) della Carta ONU si legge: “I membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”. Il divieto in questione trova altra fonte nel diritto internazionale consuetudinario, come affermato dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) il che ne rafforza la gravità. Si è discusso e si discute sul significato di “uso della forza”, e ai fini del divieto in questione l’uso della forza dovrebbe includere anche le misure di coercizione economica e politica. Le prerogative e le inerenti responsabilità di mantenere la pace e la sicurezza internazionale sono demandate al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, in base all’articolo 39 della Carta. Tuttavia, il processo di decision making, stante il potere di veto attribuito ai cinque membri permanenti del CdS (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Usa), ha comportato un adattamento alla pratica di autorizzazione in luogo di decisioni, di interventi armati, contro l’uso illegale della forza. Ricordiamo per esempio il caso dell’Afghanistan.

L’uso della forza, dunque, è contemplato?

Sul piano del diritto internazionale è consentito eccezionalmente in caso di legittima difesa e di intervento armato delle Nazioni Unite sulla base del capitolo VII della Carta a fini di mantenimento o il ristabilimento della pace. A queste eccezioni espressamente previste dalla Carta, si sono aggiunte, nella prassi, altre situazioni in cui il divieto dell’uso della forza si affievolisce. Pensiamo ai casi di consenso dello Stato all’esercizio della forza nel suo territorio ad opera di altro Stato, di intervento armato su invito, di operazioni militari nel territorio di un altro Stato per tutelare i propri cittadini. Pensiamo pure all’intervento armato umanitario, che dovrebbe essere giustificato dalla finalità di porre fine a gravi violazioni dei diritti umani commessi da un altro Stato a danno della propria popolazione. Un discusso caso di uso della forza si è registrato nel 1999, contro la Repubblica Federale di Iugoslavia da parte di 10 Stati membri della NATO. Senza una decisione autorizzativa del CdS, l’intervento venne giustificato dal fine di far cessare il disastro umanitario causato dalla violenta repressione delle forze di polizia serba ai danni della popolazione albanese del Kosovo. La CIG ha espresso grave preoccupazione per tale interpretazione del diritto internazionale. Dalle informazioni disponibili, nel caso della tragedia in atto in Ucraina, non emerge alcuna delle eccezioni e o deroghe legittime all’aggressione della Russia. L’Ucraina può adire la CIG per far accertare la responsabilità dello Stato aggressore per violazione del divieto dell’uso della forza e, in caso affermativo, ottenere riparazione per tutti i danni da esso causati, da determinare anche in via equitativa se non sarà possibile fornire prove sull’entità dei danni medesimi.

Il Prosecutor Karim Khan ha annunciato l’intervento della Corte Penale Internazionale. Vedremo Putin tra gli imputati? 

La CPI giudica individui e non Stati. Sono perseguibili coloro che commettono per azioni e o omissioni crimini internazionali quali il genocidio, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e l’aggressione. Essendo la sua base giuridica un Trattato internazionale, lo Statuto di Roma del 17 luglio 1998, il suo funzionamento incontra i limiti di applicabilità propri dei trattati.

Il rischio, considerato lo scenario di guerra, che vengano commessi crimini da entrambe le parti è molto alto. Ci sarà tanto lavoro per la CPI? 

Sì, nelle operazioni militari il rischio è alto. La CPI si sta preparando ad esercitare la sua giurisdizione con indipendenza ed imparzialità. Ha bisogno della cooperazione degli Stati ed è nell’interesse di tutti non lasciare impuniti crimini gravissimi che offendono l’intera comunità internazionale con indipendenza ed imparzialità. Per fornire la migliore cooperazione occorre che le persone designate a cooperare con la Corte siano adeguatamente preparate e informate sul suo funzionamento. In Italia, per quanto mi risulta, manca questa preparazione. Se la CPI viene sostenuta e riesce a svolgere il suo mandato di lotta all’impunità e di riparazione alle vittime potremmo affrontare con fiducia le sfide dei prossimi anni con un Diritto internazionale vivo e attivo, rimediando anche all’erosione dei poteri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in materia di pace e sicurezza internazionale. Una nuova epoca del diritto internazionale con maggiore partecipazione degli individui e maggior controllo degli stessi sui governi.