Piero Amara, ex legale esterno di Eni, è un pentito che si usa solo quando fa comodo. Quando, ovvero, potrebbe tornare utile nel processo più grosso degli ultimi anni, quello contro il colosso energetico. E che si tiene fermo, invece, quando c’è da verificare fatti gravissimi, così come quelli da lui descritti svelando l’esistenza della presunta Loggia Ungheria. Si potrebbe riassumere così quanto sostenuto dal pm milanese Paolo Storari davanti al gup di Brescia, dov’è a processo per rivelazione di segreto d’ufficio assieme all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Parole, le sue, che danno conto del «muro di gomma» in cui si sarebbe imbattuto allorquando avrebbe tentato di approfondire le dichiarazioni di Amara, senza successo. «Quando le cose fanno comodo in Eni-Nigeria, buttiamola al processo (...), quando si deve indagare su Ungheria che potrebbe portare al calunnione gravissimo, no», spiega lo scorso 3 febbraio alla giudice Federica Brugnara, davanti alla quale descrive in lungo e in largo la frustrazione provata nell’ultimo anno e mezzo. Uno stato d’animo causato dal presunto ostruzionismo dei vertici dell’ufficio, su tutti l’ex procuratore Francesco Greco (la cui posizione è stata archiviata) e l’aggiunta Laura Pedio (indagata per omissione di atti d’ufficio), coassegnataria del fascicolo sul “Falso complotto Eni”, indagine parallela a quella principale sulla presunta corruzione nigeriana, nel quale sono maturate le dichiarazioni di Amara. E proprio il «ritardo» nelle iscrizioni dei primi indagati, più volte richieste da Storari, ha spinto il pm a rivolgersi a Davigo, al quale consegnò i documenti contenenti le dichiarazioni di Amara innescando, involontariamente, l’iter che portò alla fuga di notizie.

Il caso Tremolada

Storari, davanti alla giudice, sottolinea di essersi sentito «solo», «rimbalzato» da un punto all’altro. E per far comprendere il suo punto di vista sulla gestione di Amara fa l’esempio più lampante, ovvero quello relativo alle dichiarazioni su Marco Tremolada, presidente del collegio nel processo Eni-Nigeria, conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati. Su di lui Amara riferì di aver saputo che le difese del processo erano state in grado di «avvicinarlo». Così i vertici della procura, a fine gennaio 2020, decidono di spedire le dichiarazioni di Amara - contenute in «due o tre righe» - a Brescia (che poi archivierà senza iscrivere nessuno), competente per i reati commessi dai o a danno dei magistrati milanesi. Di ciò Storari viene tenuto all’oscuro, tant’è che protesta con Greco e Pedio per iscritto. Ma l’episodio, afferma il pm., certifica una cosa: Amara viene preso sul serio dai vertici della procura. Tant’è che Fabio De Pasquale, il procuratore aggiunto che ha rappresentato l’accusa nel caso Eni-Nigeria, propone ai colleghi di usare quelle sue dichiarazioni al processo, soluzione che ancora una volta non trova d’accordo Storari. Che attacca: «Ma scusate, voi praticamente davanti al mondo infangate il magistrato, il presidente del Tribunale (...) e loro mi rispondono: “Tu, Paolo, sei un corporativo, noi vogliamo farlo perché crediamo che Tremolada sia un soggetto che è troppo aderente alle difese”, io rispondo: “Guarda, dovete passare sul mio corpo (...) faccio casini perché queste cose non si fanno”. Ho detto: “Volete farle voi? Sapete cosa c’è? Vi chiamate voi Amara nel vostro verbale (...) ma non usate il verbale che ho fatto io per mascariare un collega su nulla”». La cosa si chiude rassicurando Storari che quel verbale non verrà utilizzato. Durante il processo, però, De Pasquale chiede di poter sentire Amara come teste, per riferire anche sulle presunte interferenze nei confronti dei giudici del processo. Una cosa «estremamente scorretta nei miei confronti», sostiene il pm, secondo cui «l’obiettivo» sarebbe stato ottenere l’astensione del giudice. La cosa non va in porto, perché la testimonianza di Amara non viene ammessa. Ma la richiesta, secondo Storari, vuol dire ancora una volta consegnare all’ex avvocato esterno di Eni una patente di credibilità, la seconda. La terza arriva direttamente da Pedio, che fornisce alla difesa dell’ex legale un certificato di fattiva collaborazione per sostenere la domanda di affidamento ai servizi sociali. «L’atteggiamento collaborativo ad oggi tenuto dall’indagato e la rilevanza del contenuto delle sue ampie dichiarazioni - si legge nel documento - consentono fondatamente di ritenere che egli abbia rescisso i legami con l’ambiente criminale nel quale sono maturate le condotte illecite per le quali è indagato e che egli si sia effettivamente ravveduto rispetto a scelte devianti». Amara, dunque, non è un pazzo, sembra dire tutta la procura. Ciononostante, le iscrizioni tardano ad arrivare. E Storari si rivolge a Davigo, presidente della Commissione deputata all’interpretazione dei regolamenti del Csm e, dunque, la persona dal suo punto di vista più qualificata, evidenziando il problema dell’omessa iscrizione, date le sue conseguenze disciplinari, dalle quali vuole smarcarsi. Anche perché, spiega il magistrato, «a un certo punto mi sono accorto (...) di essere stato preso in giro più volte» dal «procuratore della Repubblica e due procuratori aggiunti, con cui lavoravo». A oltre cinque mesi dalle prime dichiarazioni di Amara sulla Loggia e sei interrogatori, infatti, non c’è traccia di atti investigativi o indagati, «neanche coloro che si autoaccusavano di queste cose». E sebbene sia vero che spesso si attende anche di più per un’iscrizione, «qui si coinvolgevano le istituzioni».

Le indagini

Ma nello scambio di mail tra Storari, Greco e Pedio emerge un fatto, evidenziato dal giudice che ha archiviato la posizione dell’ex procuratore: è proprio quest’ultimo, e non Storari, a proporre l’iscrizione di Amara, Giuseppe Calafiore e Alessandro Ferraro. La loro iscrizione, spiega però Storari, era scontata. Serviva, invece, recuperare i tabulati degli altri soggetti coinvolti, per certificare i loro rapporti, cosa mai avvenuta. «L’iscrizione di Amara, Calafiore e Ferraro era ovvia, di questi tre io non volevo fare i tabulati perché sapevo che erano estremamente prudenti con i cellulari - spiega -, usavano sistemi criptati, era assolutamente inutile fare i tabulati di questi qua». Mentre Storari sostiene che nulla sia stato fatto per verificare le parole di Amara, Greco e Pedio elencano una serie di attività che rientrerebbero nell’indagine sulla presunta Loggia. Ma il pm smentisce tutto, indicando data per data come starebbero i fatti. Il fascicolo, rimasto a Milano dal dicembre 2019 al gennaio 2021, non contiene alcuna delega alla Polizia giudiziaria, se non quelle fatte da Storari per identificare i soggetti. Insomma, il fascicolo sarebbe rimasto a «galleggiare» per un anno, nonostante la fuga di notizie del 17 febbraio. E ciò che viene definito atto di indagine sarebbe ben altro: gli incontri con i colleghi di Perugia, dove peraltro «non si è parlato di Ungheria», le intercettazioni e le perquisizioni compiute nell’inchiesta sul “Falso complotto”, i cui decreti erano finalizzati «a totalmente altro», la trasmissione dei verbali a Greco, la rilettura degli stessi da parte di Amara, nonché la loro trascrizione. E senza voler accusare nessuno, conclude Storari, «ho avuto l’impressione (...) che si è voluto gabellare per atti istruttori Ungheria robe che non c’entrano niente».

Le prove di Eni-Nigeria

Storari racconta anche del tentativo di avvisare i pm del processo Eni-Nigeria delle presunte falsità raccontate da Amara e Vincenzo Armanna, grande accusatore della società petrolifera. «Cerco di riscontrare le dichiarazioni di Amara e Armanna nel mio procedimento e vengo a scoprire grazie alle attività investigative che ho fatto io che sia Amara che Armanna sono due calunniatori», spiega Amara, che invia una mail a De Pasquale (ora indagato assieme al collega Sergio Spadaro) per avvisarlo, chiedendo di convocare una riunione. Ma «non vengo neanche considerato». Storari invia ulteriori elementi, dal presunto pagamento di un teste alle chat false, elementi da sottoporre dalla difesa, ma non avviene nulla. «Ma lei consideri come si trova a vivere una persona, cerchi di fare il tuo lavoro, tu cerchi di fare il tuo lavoro perché portare elementi al collega, ma non lo faccio per distruggerlo il processo, ma che sono elementi obiettivi», conclude. Anche perché poi il tutto viene «confermato a un anno di distanza».