«Il quadro probatorio riscontrato mostra che il fatto in contestazione non sia stato mosso da alcuna finalità di profitto, bensì risulti semplicemente quale conseguenza di un’erronea prassi posta in essere ab initio dalla struttura sanitaria in cui è avvenuta la procedura di aborto». È quanto si legge nell’ordinanza del gip di Roma che ha archiviato la scorsa settimana l’inchiesta relativa alla vicenda dei feti sepolti al cimitero Flaminio della capitale, dove sulle piccole sepolture erano presenti anche le generalità delle donne che avevano interrotto la gravidanza. Il procedimento era scaturito dalla denuncia delle donne colpite dalla violazione dei loro diritti e dall'esposto l’associazione Differenza Donna che ha portato all’apertura di un fascicolo con due indagati in cui si ipotizzavano i reati di violazione della legge sull’ aborto e sulla diffusione dei dati personali. Lo scorso aprile però la stessa Procura, con il procuratore aggiunto Angelantonio Racanelli e la pm Claudia Alberti, aveva chiesto l’archiviazione dell’inchiesta, accolta dal gip. «Come evidenziato dal pubblico ministero, la carenza normativa riscontrata in tale ambito che ha portato a questo "uso" dell’apposizione dei nomi delle donne al fine di identificazione dei feti - scrive il gip rigettando la proposta di opposizione all’archiviazione presentata dall'Associazione - ha successivamente comportato un celere intervento, dietro impulso dell’Autorità garante per la Privacy, del Comune di Roma, Dipartimento tutela ambientale, al fine di modificare il Regolamento di Polizia cimiteriale nonché i protocolli riguardanti il trattamento dei dati personali nei cimiteri di Roma Capitale, indicando apposite istruzioni operative per rimuovere tale violazione, nonché nuove istruzioni in merito ai nuovi trattamenti, prevedendo per l’identificazione del feto unicamente un codice alfanumerico». «Alcun nocumento intenzionalmente voluto - conclude il giudice - al fine di trarre a sé o ad altri ingiusto profitto risulta emerso nell’illecita diffusione dei dati sensibili e nella violazione della riservatezza delle donne che hanno avuto accesso alla pratica di interruzione della gravidanza». Dunque, aderendo al quadro tracciato dalla procura, il Tribunale ha confermato che aver esposto il nome delle donne sulle sepolture dei feti è oggettivamente un comportamento contro legge, ultimo atto di una serie di violazioni delle norme a tutela della riservatezza delle donne che hanno fatto ricorso all’aborto, violazione che parte dalle aziende ospedaliere e prosegue in tutti i passaggi. Tuttavia, il Tribunale ritiene che non sussiste il dolo, ossia la coscienza e la volontà di ledere deliberatamente la privacy: gli indagati si sono trovati a operare, secondo il Tribunale, in un contesto privo di normativa chiara e univoca. «Quanto accaduto e ancora in atto rimane una procedura deliberata, oggettivamente in violazione della legge 194 e che normalizza la stigmatizzazione e l’esposizione pubblica delle donne che abortiscono e persegue, nella nostra visione uno scopo duplice: da un lato gli ospedali risparmiano i costi di uno smaltimento come rifiuti speciali, dall’altro si alimenta uno spazio pubblico funzionale agli obiettivi dei radicati movimenti anti-choice attivi sul territorio»,  spiega l’avvocata dell'Associazione Ilaria Boiano. «Le donne devono avere giustizia, le condotte denunciate sono illecite - aggiunge l’avvocata Teresa Manente - nomi e cognomi sono stati apposti su sepolture di cui nessuna conosceva l’esistenza: dov’è la giusta causa di questa condotta? gli elementi soggettivi delle condotte denunciate, compreso l’eventuale vantaggio/profitto non sono stati rinvenuti perché non sono stati indagati». L’associazione si era infatti opposta alla richiesta di archiviazione, chiedendo al Gip di ordinare un approfondimento delle indagini, indagini che però il Tribunale ha deciso di non disporre. «Differenza Donna - conclude Elisa Ercoli, presidente dell’Associazione - sostiene le donne che hanno denunciato per le violazioni subite nei cimiteri dei feti, le loro narrazioni non possono non essere ascoltate e di conseguenza non riteniamo possibile non indagare per trovare chi ne è responsabile. Come Associazione abbiamo denunciato pubblicamente e con forza questa pratica, recandoci al cimitero dei feti a Roma richiamando l’attenzione (e l’incredulità) di moltissimi media stranieri. Continueremo ad assistere le donne vittime di questa inaccettabile violenza, coinvolgendo in questa battaglia comune tutta la rete che con noi opera per il contrasto alla violenza: esigiamo sia fatta chiarezza su fatti gravi che violano i diritti e la libertà delle donne».